
Cosa è stata la Vandea.
La Vandea è stata per moltissimi lustri sinonimo di Reazione nel senso più negativo del termine. Perfino un poeta russo anticomunista come il Nor ha potuto scrivere, in una poesia: “No, in noi non risorgerà la Vandea/ in quelle ore risonanti e decisive!”. Del pari, il Dizionario dei termini storiografici dello Zanichelli così scrive sulla Vandea: “..per estensione, ogni insurrezione popolare di tipo reazionario”. Persino durante il Ventennio circolava un testo del Savelli su La Dottrina del Fascismo, in cui si affermava solennemente che il Fascismo altro non era se non un prodotto storico del Rinascimento e della Rivoluzione Francese, un diretto erede degli “immortali principi”. Tutto ciò dimenticandosi, ad esempio, che il famosissimo “Se avanzo seguitemi…” di Mussolini era stato carpito al generalissimo Henri de La Rochejacqueleine, l’eroe dell’insurrezione vandeana. La Vandea fu in realtà per i francesi l’ultima, vera battaglia per le libertà concrete, l’ultima retroguardia armata in difesa di valori tradizionali che rappresentavano l’antitesi dell’utopia rivoluzionaria.
Innanzi tutto è falso che la ribellione vandeana sia stata organizzata dalla nobiltà sopravvissuta al diluvio del 1789, e da questa finanziata e diretta. Basti dire che i contadini del Nord-Ovest francese se ne stettero buoni per quattro anni, dopo la folcloristica presa della Bastiglia. Ma dall’89 al ’93, il Governo repubblicano aveva avuto modo di mostrare il suo vero volto. “Libertè, Fraternitè, Egalitè” erano rapidamente andate a farsi benedire alla lanterna o sulla ghigliottina, per lasciare il posto ad una durissima tirannide. Chiunque fosse stato ufficiale nel disciolto esercito regio poteva considerarsi un ricercato. Bastava cavalcare un cavallo di colore bianco, come successe ad Avignone, per essere additato come nemico del popolo e massacrato. Un grande storico del tempo come il Taine ci ha lasciato una impressionante documentazione sulla bestialità della teppaglia “cittadina”: “Bertier, che non aveva mai comprato o venduto un solo grano di frumento, viene chiamato incettatore; agli occhi della folla che ha bisogno di spiegare il male con un malvagio, è egli l’autore della carestia. Condotto all’Abbaye, lo si spinge verso il fanale. Allora vedendosi perduto, egli strappa un fucile agli assassini e si difende da coraggioso. Ma un soldato di Royal-Cravate gli squarcia il ventre con una sciabolata; un altro gli strappa il cuore. Per caso, il cuoco che ha tagliato la testa a de Lauteney si trova colà, gli si dà il cuore da portare. Il soldato prende la testa, e tutti e due vanno al Palazzo di città per mostrare quei trofei al signor di La Fayette. Di ritorno al Palais-Royal e seduti in un’osteria, il popolo domanda loro quei due resti. Essi li gettano dalla finestra e terminano la loro cena mentre sotto di essi. si porta in giro il cuore in un mazzo di garofani bianchi”.
Ma la sorte peggiore toccò ai sacerdoti delle zone periferiche, notoriamente fedeli alla Magistero romano. Se a Parigi una certa parte del clero e dell’alta borghesia e buona parte della nobiltà erano tuffate sino al collo nel pantano della filosofia illuminista e nella ricercata alleanza con i Montagnardi, nell’estremo Nord e nell’estremo Sud della Francia, nelle campagne e nei villaggi, nulla era mutato con la Rivoluzione. Un indissolubile vincolo di fedeltà legava il contadino, il parroco, il militare, la massaia, e persino il contrabbandiere, alla figura del Re e alla Religione tradizionale. Parigi, città considerata come centro di ogni perversione innovatrice, era odiata e disprezzata sia dall’umile fattore dei Maine che dallo zappatore di Lione.
Per Dio e per il Re.
Nel 1793, i sanculotti accentuarono ancor di più lo stato oppressivo nei confronti delle campagne, finendo cosi col provocare la rivolta armata. Tre furono i principali fattori che spinsero la gente del Nord-Ovest alla sollevazione: 1) l’intensificarsi della persecuzione antireligiosa. 2) la coscrizione obbligatoria per centinaia di migliaia di giovani dei territori del Nord. 3) il tentativo di sradicamento della propria identità storica.
Gli uomini dei campi erano profondamente attaccati ai loro curati, tutta gente del posto, figli di muratori, carpentieri, coltivatori. Quando fu reso noto il decreto che esigeva da essi il giuramento di fedeltà alle leggi sacrileghe, quando furono cacciati dalle chiese tutti quei parroci che, in grande maggioranza, vollero restare fedeli alla loro vocazione, quando furono visti les intrus prendere possesso delle chiese, il già latente fermento cominciò ad espandersi I preti vandeani; costretti alla macchia come dei criminali, si sforzarono invano di predicare pace e moderazione. La gente umile già ribolliva di sdegno nel sapere dell’imprigionamento della famiglia reale, del massacro degli ecclesiastici consumato dai “cittadini” di Parigi, della decapitazione di Luigi XVI. Ma l’odio salì alle stelle quando furono viste intere colonne di bons prètres prelevati dai repubblicani ed avviati verso Paimboeuf, e quando furono ancora sentiti i “patrioti”, i patauds, cianciare di “nazione”.
II primo marzo ’93, la Convenzione ordinò la leva obbligatoria per 300.000 ragazzi. Al solo pensiero che i loro figli dovessero aiutare la Rivoluzione, i Vandeani insorsero. Seicento parrocchie si sollevarono lo stesso giorno, dando inizio. in tal modo, alla guerra civile. Il sacerdote delle periferie francesi rappresentava per la propria comunità, un’autentica autorità spirituale. I cosiddetti preti refrattari, quelli cioè che si erano rifiutati di giurare fedeltà agli ideali della Rivoluzione, erano quasi una via di mezzo tra il “curato di campagna” di Bernanos e Pier l’Eremita. Autentici figli del popolo ed autentici credenti. Al contrario dei prelati parigini, essi nutrivano una fede incrollabile e fiducia nella giustizia del Re, disconoscendo ogni gerarchia ecclesiastica e civile imposta dal Governo repubblicano.
La sepoltura del generale Henri de La Rochejacqueleine.
Del resto, per tutta la popolazione dell’ovest, i cosiddetti pretres jureurs non erano altro che degli intrus, dei rinnegati; e, pertanto, nonostante il loro abito talare non erano riconosciuti nemmeno come preti cristiani. Basti pensare che di tutti i cattolicissimi Vandeani e Chouans catturati vivi dai Bleus e dopo mandati a morte, nessuno volle ricevere l’estrema unzione offerta loro da un qualche prete jureur: preferirono morire senza sacramenti piuttosto che accettare quelli di un prete costituzionale. E già due anni prima dell’insorgenza, in Vandea circolava segretamente di famiglia in famiglia, una strana preghiera il cui atto di carità così terminava: “J’aime Ies juges qui sans faute / condamneront les patriotes, / le fer chaud qui les marquera / et le bourreau qui les pendra”.
Le canzoni degli insorgenti riecheggeranno sempre la parola Croisade, volendo dare alla ribellione il senso di una nuova Crociata contro i nuovi infedeli. D’altronde, l’esercito vandeano ebbe la denominazione esatta di Armèe Catholique er Royale, ove il termine catholique precedeva quello di royale. La stessa insegna adottata dalle truppe Bianche fu il Sacro Cuore di Gesù, che tutti portavano ricamato sul petto.
In realtà, i nobili realisti si aggregarono alla sommossa soltanto in un secondo tempo, quando questa era già incontenibile ed inarrestabile, ed essi stessi, i nobili, non esitarono a mettersi agli ordini di plebei analfabeti che ovunque dirigevano la rivolta. Tutti i primissimi capi della Vandea appartenevano alle classi più basse. Un ex. gabelliere come: Souchu ed un prete come Bernier nominarono generalissimo dell’Armata Cattolica un carrettiere come Cathelineau, destinato poi a morte gloriosa sul campo di battaglia. E Cathelineau ebbe come suoi aiutanti generali Stofflet, un guardiacaccia e Gaston, un parrucchiere. Lo stesso Charette, il grande condottiero, non era che un ufficiale di Marina, e Sapinaud, la Rochejaquelein, Bonchamps, d’Elbèe, d’Autichamp e Guèrin erano oscuri nobili di provincia.
Il generale Henri de La Rochejacqueleine.
La verità è che la Vandea fu una rivolta popolare, spontanea e tradizionalista. Le insensate e sacrileghe elucubrazioni volteriane erano rifiutate dal sentimento della povera gente. Alla libertè astratta della Repubblica, essa preferiva le libertà concrete della Tradizione. Ecco perchè, già qualche giorno prima della rivolta, nell’Ille-et-Vilaine la folla urlava per strada: “Viva il Re Luigi XVII!”, dando la caccia ai “liberali”; ecco perchè nel Morbihan due capoluoghi come La Roche-Bernard e Rochefort-en-Terre caddero in mano agli insorti senza colpo ferire; ed ecco perché il segnale partì il 10 marzo 1793 da uno sperduto paesino come Saint-Florent-Ie-Vieil, quando un giovane pastore si arrampicò sul campanile e suonò le campane a martello, e migliaia di contadini armati di forconi, falci, spranghe e coltellacci fecero a pezzi le Guardie Nazionali al grido di: “Viva il Re! Viva la Religione!”.
Due giorni dopo, a Machecoul, centro monarchico, iI Comitato Reale celebrò una messa all’aperto e lanciò la sua dichiarazione di sfida. giurando “in faccia al cielo ed alla terra che il popolo diventato nazione nella città di Machecoul, non riconosce e non riconoscerà mai che il Re di Francia per suo solo e legittimo sovrano”.
Ed i nobili? I nobili, in verità, erano fra loro divisi e non rappresentavano più una “casta”. E se le ghigliottine ebbero lavoro per dieci anni, si devono ringraziare anche i “signori” dell’alta borghesia parigina ed i nobili traditori come Filippo Egalitè ed illusi come La Fayette, aristocratici protettori dei circoli illuministi e dei club giacobini, tutti assidui frequentatori di logge massoniche, tutti imbevuti di idee liberal-progressiste. Senza di essi, difficilmente vi sarebbe stato un moto dell’89. Leggiamo il Taine che, nella sua opera magistrale, ha tratteggiato molto bene la nefasta attività di costoro: “II giardino e le gallerie del Palais-Royal diventano un club all’aria aperta, ove, per tutto il giorno e fino a notte inoltrata, essi si esaltano gli uni con gli altri e spingono la folla ai colpi di mano. In questa cinta protetta dai privilegi della casa d’Orleans, la polizia non osa entrare, la parola è libera” ed il pubblico che ne usa sembra scelto espressamente per abusarne: “il pubblico che conviene ad un simile luogo. Centro della prostituzione, del giuoco, dell’ozio e degli opuscoli, il Palais-Royal attira a sè tutta quella massa senza radici che fluttua in una grande città, e che non avendo nè mestiere, nè famiglia, non vive che per la curiosità od il piacere, frequentatori di caffè e di bische, avventurieri e spostati, faccendieri e novizi della letteratura, dell’arte e delle professioni, scrivani di procuratori, studenti babbei, bighelloni, forestieri ed abitanti abituali di locande; si dice che ammontano a quarantamila solo a Parigi. Riempiono il giardino e le gallerie. Qui non vi è posto per le api industriose ed ordinate; è questo il ritrovo dei calabroni politici e letterari. Essi vi calano dai quattro angoli di Parigi, ed il loro sciame tumultuoso, ronzante, copre il terreno come un alveare che trabocchi. Si capisce lo stato di tutti quei cervelli, sono i più vuoti di zavorra che vi siano in Francia, i più gonfi di idee teoriche, i più eccitabili ed eccitati. In quel guazzabuglio di politici improvvisati, nessuno riconosce quel che parla, nessuno si sente responsabile di ciò che ha detto. Ognuno sta lì come in teatro, sconosciuto fra gli sconosciuti, col bisogno di essere commosso e trasportato, in preda al contagio delle passioni circostanti, trascinato nel vortice dei paroloni, delle notizie inventate, dei rumori ingrossanti delle esagerazioni con le quali gli energumeni si sopravanzano a vicenda. Sono grida, lacrime, applausi, trambusti come davanti ad una tragedia; qualcuno si infiamma e si spolmona fino a morire sul colpo di febbre e di esaurimento”.
Una autentica insorgenza popolare.
Al contrario, l’aristocrazia terriera di provincia era rimasta quasi ovunque ferma sulle proprie posizioni, seppure senza un deciso impegno interventista. Probabilmente, se non si muovevano i contadini ed i moutons noirs, anche essa avrebbe silenziosamente subito gli eventi imposti dalla carboneria francese. Quando l’insurrezione scoppiò con tutta la sua violenta spontaneità, i primi a restarne sbalorditi e a non volerne essere invischiati, furono proprio i nobili di campagna. A Fontendose, Charette si nascose sotto il letto per non farsi trovare dalla plebe che lo voleva porre a capo di ciò che essa aveva provocato. Alla Baronnière, Bonchamps non riuscì nemmeno a montare a cavallo, chè venne circondato dai villici e costretto a .guidarli.. Il cavalier Sapinaud de La Verrie per poco non venne ammazzato per aver detto che l’insurrezione era una “follia”, vista la carenza di armi e munizioni. A Saint-Philbert, venne assediata la casa di de Couetus, costringendolo violentemente a “fare il generale”. A Machecoul, la folla andò a prelevare Danguy, vecchio capitano del reggimento di Bassigny, cavaliere di S. Luigi, quasi settantenne e quasi cieco. Lo mise a cavallo. e si ammassò dietro di lui. Un mese dopo, il povero vecchio venne preso dai Bleus, portato a Nantes e ghigliottinato come capobanda.
Ma vi è ancora un particolare da aggiungere per smascherare i nuovi giacobini sulla tesi della “rivolta degli aristocratici”. In Bretagna, in Normandia, nel Maine, la ribellione fu attuata ed organizzata dalle bande agguerrite degli Chouans. Tutti gli Chouans erano ex contrabbandieri, faux-sauniers, pastori, taglialegna, calzolai, ecc.. Nessuno di loro era nobile o borghese. Era tutto un ribollimento di gente del popolo più minuto; e furono costoro, più che l’Armata regolare vandeana, i più accaniti e fanatici controrivoluzionari. Per cinque anni, dopo che l’ultima resistenza vandeana era crollata definitivamente, gli Chouans continuarono a combattere contro i Bleus ed a cadere con le armi in pugno ed il rosario al collo.
Sulla chouannerie conviene soffermarsi un attimo per un particolare: la speciale tattica militare. Si sa, come i sovversivi italiani ed europei in generale si sentano inarrivabili in tutto ciò che è materia di guerriglia o di guerra sovversiva in genere. Mao, Guevara, Feltrinelli ed i Viet sono stati considerati profeti militari in questo campo. La realtà è invece che costoro hanno scopiazzato malamente tutte le tecniche militari di “reazionari” come gli Chouans. Rintanati per settimane e settimane sotto terra, con pochissimo cibo e pochissima aria, muovendosi a piccoli gruppi di notte, colpendo e scomparendo in continuazione, per undici anni consecutivi, gli Chouans furono i veri maestri dei teorici dell’OAS come Lacheroy e Degueldre e di tutta la moderna forma di guerriglia.
Se. al lume delle accennate considerazioni si considera la Vandea come rivolta popolare e spontanea, è logico dire che i Vandeani erano totalmente lontani dall’intellettualismo salottiero e che era il loro buon senso, il loro “fiuto” di contadini a smuovere cuore e muscoli. Certo non leggevano la Chronique scandaleuse o il Mercure de France, dalle cui colonne Rivarol lanciava i suoi strali contro la repubblica; nè potevano udire i focosi discorsi di Burke alla Camera inglese. Ad essi bastava imbracciare fucili e forconi, cucirsi sulla giubba il Sacro-Cuore-di-Gesù per correre dietro al pennacchio bianco di Charette.
Nè il cavaliere della provincia nè il povero campagnolo avrebbero mai potuto tollerare l’adorazione obbligatoria di una “dea ragione”, entità. astrusa e grottesca, scaturita dalla mente bacata dei “filosofi”. Pur tuttavia, in quegli anni si andò estendendo in tutta Europa un nuovo pensiero controrivoluzionario. Alle elucubrazioni dei Rousseau, dei Voltaire, dei Diderot. rispondeva in modo tagliente la trincea culturale dell’anticonformismo europeo. Antoine de Rivarol, ex seminarista di origine italiana, pubblica una serie di articoli graffianti sul Journal royaliste; egli è uno dei primi in Francia ad aver centrato il problema delle riforme. Già prima della Rivoluzione si batte per l’approvazione di riforme sociali che possano scavalcare le fatue istanze rivoluzionarie e presenta come un modello la dichiarazione reale del 23 giugno, alla cui elaborazione aveva lavorato. Ostile alle astrazioni teoriche, critica violentemente i “diritti dell’uomo”, nel suo Trattato della sovranità del popolo.
Un altro francese, il conte Ferrand, che fa parte dell’armata di Condè, assume lo stesso critico atteggiamento di Rivarol, con in piu uno spiccato interesse per le classi piu basse della società. Ferrand crede fermamente che la libertà bene intesa sia “un diritto naturale che porta alla felicità”, ma che essa deve scindersi dal suo aspetto negativo ed anarchico. Dal suo esilio volontario, Ferrand pubblica due importanti libri come Lettre à mes concitoyens e Les conspirateurs dèmasquès, che costituiscono un atto di accusa contro i tradimenti di Necker, di La Fayette e di Filippo d’Orlèans.
Nello stesso tempo, Sènac de Meilhan, fra qualche confusione e qualche esitazione, comincia ad individuare, come già Ferrand, i responsabili della sovversione francese, e cosi scrive sul suo Des principes et des causes de la Rèvolution: “Parecchi di quelli che più tardi sono stati chiamati “aristocratici” furono invece dei “democratici”. I grandi, l’alta nobiltà, il clero, le dame, i ricconi chiedevano allora un cambiamento di Governo. Essi volevano ottenere più considerazione, usando la loro influenza. Volevano essere onorati nella loro provincia, volevano essere esenti dal rischio dell’esilio e dalla Bastiglia. Questi aristocratici sono i veri autori della Rivoluzione.”
Ma i più intransigenti pensatori controrivoluzionari francesi furono due preti: gli abati Barruel e Duvoisin. L’abate Barruel, ex editore del Journal ecclesiastique, grande maestro della dottrina tradizionalista, deve essere considerato come il vero ispiratore di Ippolito Taine e come l’occulto suggeritore di tutta la politica della Santa Alleanza e della Restaurazione monarchica, come del resto ha ammesso persino uno storico come il Godechot. L’abate Duvoisin è ancora più drastico e duro del Barruel. Nel ritorno alla Tradizione, egli indica l’unico mezzo per riconquistare la pace ma del pari egli indica con foga i veri nemici della Chiesa e della Patria: le pericolose innovazioni, le tolleranze complici, la eccessiva libertà di stampa, il materialismo dei filosofi, il matrimonio civile. Come Sènac de MeiIhan, Duvoisin intravede nella oscena decadenza della nobiltà parigina, il bubbone rivoluzionario, e tutto ciò lo porta verso una specie di populismo tradizionalista. Ma Duvoisin è un buon politico anche, perchè già nel 1789 profetizza: “I giacobini non possono stare a galla che grazie alla tirannia all’interno ed alla guerra all’esterno. La Francia è già alla vigilia della restaurazione della monarchia tradizionale”.
Nella stessa trincea culturale. troviamo anche un valente articolista come Mallet du Pan, le cui famose considerations hanno il potere di impressionare persino Fichte e Kant. Ma, fra tanti nomi, il più celebre resta ancora quello di Joseph de Maistre, il confratello francese di Burke, il “reazionario” che smaschera le utopie di Rousseau in ogni sua opera, da Les bienfaits de la Rèvolution française alle notissime Considerations sur la France. E non bisogna dimenticare nemmeno l’ex sindaco di Millau, Louis de Bonald. autore di Thèorie du pouvoir, che come il de Maistre viene attaccato dalla sinistra come un “teocrate” incallito. Ma forse il più interessante dei pensatori controrivoluzionari del tempo è l’irlandese Edmund Burke. Nelle sue arcinote Riflessioni sulla Rivoluzione Francese è contenuto il pensiero conservatore del Settecento. Ma anche la Germania vede il rifiorire di una cultura contro la moda dell’intellettualismo giacobino. II prussiano Friedrich von Gentz traduce e diffonde le opere di Burke e Mallet du Pain, rinnegando cosi le sue origini razionaliste, e condanna la stessa idea di “nazione”, mirando a stabilire già sin d’allora un “equilibrio europeo”.
II popolo reclama i suoi sacerdoti.
Herder parla di Volksgeist. Justus Moser si lancia in appassionate giustificazioni del principio di gerarchia, riallacciandosi al mondo medioevale. Ernst Brandes scrive libri in cui afferma che “il grande errore dei deputati è stato di voler redigere una costituzione basata sulla ragione e non sull’esperienza”. Sulle stesse posizioni troviamo anche un von Schlotzer ed Augusto Guglielmo Reheberg che negano la validità di una “volontà del popolo sovrano”, identificandola solo con la “volontà di qualcuno”.
Charette, Bonchamps e tutti gli altri ufficiali firmatari della Risposta delle Armate Cattoliche e Reali della Vandea al decreto della Convenzione così si espressero nei confronti dei sanculotti, in un documento rimasto celebre: “Siete voi, che, corrompendo ogni principio morale, avete collocato l’Onore nella prostituzione, il Dovere nella rivolta la Forza nella depravazione, la Gloria nella ferocia”. Nello stesso modo di condurre la lotta, vediamo riaffiorare un senso aristocratico della vita e della guerra, in cui traspare un totale abbandono del sentimento di odio, di questi accaniti difensori della Tradizione. In loro. non è l’idea di vendetta che domina, bensì un anelito di pace, di riconquista della pace perduta, di amore virile e giustiziero. Davanti alle Sabbie d’Olonne, i Vandeani così scrivono ai Bleus assediati: “Vi scriviamo con le lacrime agli occhi e le armi in mano. Voi dite che il popolo è sovrano. Bene! II popolo reclama i suoi sacerdoti ed il libero svolgersi della sua religione. La Francia è oggi solo un caos. II Trono rovesciato, le nostre piccole proprietà usurpate, la nostra vita, quella delle nostre donne e dei nostri bambini, minacciate: questi sono i giustissimi motivi che ci fanno impugnare le armi. Quanto sangue sta colando! E questo è sangue dei nostri fratelli, dei nostri padri, dei nostri amici…”
Le colonne infernali.
II comportamento dei Repubblicani, durante tutta la guerra civile, fu orrendo. Essi massacrarono sistematicamente tutti i contadini sospetti. che capitavano loro a tiro. A Machecoul, centinaia di uomini e donne vennero sotterrati vivi, lasciando loro insepolta solo la testa, poi fracassata a pietrate. Non per nulla le truppe repubblicane assunsero la triste denominazione di “colonne infernali”.
Comunque, i massacri dei Bleus non passeranno del tutto invendicati. Mentre a Nord, I’ultima chouannerie assunse l’aspetto di una vera e propria guerra di ritorsione, a Sud i Compagnons de Jèhu e la marsigliese Compagnia del Sole nel 1795 fecero pagare salato ai patauds i loro misfatti. A Tarascona, tutto quanto il popolino, in una estrema rabbia ribelle, andò a scovare, casa per casa, tutti i “galantuomini” giacobini gettandoli nel Rodano da sopra gli spalti del castello di Re Renato. Più o meno la stessa sorte toccò ai sanculotti di Tolosa il 23 maggio 1795. In seguito alla rivolta federalista, i popolani eliminarono i giacobini di Caen, Bordeaux, Nimes. Marsiglia, Tolone e Lione. E fu proprio questa città che, costretta alla resa dopo un lungo assedio, vide la bestiale rivincita delle colonne giacobine, le quali si divertirono a scorticare vivi ed a mutilare orrendamente tutti i ribelli sopravvissuti.
E’, in ogni caso, innegabile che, al dà là dei luoghi comuni della storiografia ufficiale, la Vandea fu una autentica rivolta popolare, spontanea e tradizionalista. Del resto, i 32 punti del decreto reale di Re Luigi XVI sancivano di già importanti riforme sociali ed economiche nel Paese che armonizzavano la libertà personale con l’ordine dello Stato.
La Francia anticipò di sei anni l’antigiacobinismo italiano. Ma l’Italia reazionaria e contadina dimostrò allora una vitalità insospettata. Ai miti ed ai soprusi dei liberali risposero egregiamente le forconate e le coltellate dei lazzaroni e dei sanfedisti. Da San Severo ad Arezzo, da Cosenza a Siena, da Trani a Napoli, dal Monferrato a Verona, da Lugo a Genova, francesi e liberal-giacobini videro coi loro occhi come sapevano combattere e vincere i “vandeani italiani”.
Bibliografiche sulla Vandea e gli chouans:
Sulle cause dell’ Insorgenza:
AA.VV.- 1789/1990- La metamorfosi della Rivoluzione- Ed. Controrivoluzione, 1990
AA.VV.- Nel Bicentenario del martirio di Luigi XVI- Ed. Controrivoluzione, 1993
Luigi Mezzadri- La Chiesa e la Rivoluzione Francese- Ed. Paoline, 1989
Taine Ippolito, LA RIVOLUZIONE. volume 2. La conquista giacobina 1908 Treves
Sull’Insorgenza:
AA.VV.- Les Francais contre les Francais- Historia, n.36, 1974
De Preo- Les Heros de la Vendèe- Ed. Mame, 1841
H. de La Fontenelle- Autour du Drapeau Blanc- Revue du Bas-Poitou, 1902
Marcel Lidove- Les Vendeens de ’93- Ed- du Seuil, 1971
L. P. Prunier- Le martyre de la Vendèe- Ed. Pacteau, 1902
Yves-Marie Salem-Carriere- Terreur revolutionnaire et resistence catholique dans le Midi-Ed Morin, 1989
Letteratura:
Honorè de Balzac- Un tenebroso affare- Ed. Casini, 1963
Honorè de Balzac- Les Chouans- Ed. Gallimard, 1961
Alessandro Dumas- Il Cavaliere di Maison Rouge- Ed. Lucchi, 1970
Jean de La Varende- La Partisane- Ed. Flammarion, 1960
Michel Ragon- I Fazzoletti Rossi- Ed. Sugarco, 1984
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