Il Sultano e il ‘Talebano’. L’Afghanistan rappresenta un settore strategico fondamentale per la politica estera turca, ma i nuovi padroni di Kabul hanno costretto il premier Erdogan a scovare nuovi obiettivi in più scacchieri. Di Roberto Roggero.

Il dittatore turco Erdogan.

Il ritorno al potere da parte dei Talebani, oltre a ridare ossigeno al movimento jihadista globale, riscrive i rapporti fra Turchia e Afghanistan e rende incerto il futuro di un Paese già devastato. Quale potrebbe essere la nuova collocazione di Ankara in questo contesto, e quali i nuovi obiettivi della politica estera del Sultano Erdogan? 

I rapporti turco-afghani 

Da oltre un secolo, l’Afghanistan ha un valore estremamente importante per la Turchia, e per svariati motivi. Dalla fine del XIX secolo, era il punto di riferimento dove si discutevano e si preparavano le varie spedizioni anglo-turche contro l’impero degli Zar, e nei primi decenni del ‘900 Kabul fu il centro nevralgico per i programmi della diplomazia tedesca (e in seguito turca) contro le mire espansionistiche dell’Inghilterra. 

Per la Turchia la centralità strategica afghana rimase inalterata anche quando Mustafa Kemal Ataturk prese il potere, e il legame personale con il sovrano afghano Amanullah Khan, lo aiutò a realizzare progetti di modernizzazione soprattutto nell’ambito delle infrastrutture. A livello diplomatico l’anno più importante è stato il 1921, quando i due Paesi firmarono un’alleanza, inaugurando relazioni diplomatiche bilaterali, e la Turchia si impegnò (fino agli anni ’60) nell’incrementare la modernizzazione afghana, poi interrotta dall’invasione sovietica nel 1979. Anche dal punto di vista etnico la Turchia legittima la propria presenza in Afghanistan, poiché Ankara considerai diversi gruppi etnici di origine turca, come Uzbeki, Azari e Turkmeni, come principali alleati in loco. I Talebani, però, non condividono questo legame e temono che la Turchia possa un giorno includere tali gruppi etnici in un “Turkestan del Sud” che spaccherebbe maggiormente il Paese e farebbe crollare il potere del movimento islamista.  

Lo scorso 15 agosto 2021, il mondo ha assistito per la seconda volta alla riscossa dei fondamentalisti islamici a Kabul. Un fatto che non pochi avevano previsto, date le condizioni di stallo in cui versava la situazione della coalizione internazionale a guida americana, ma favorito anche dal progressivo e inarrestabile deterioramento del potere statale, soprattutto nella sua credibilità nei confronti del Paese. Corruzione endemica, infrastrutture assolutamente inadeguate, sanità allo stremo, analfabetismo dilagante, continui attentati alla sicurezza pubblica e, in ultimo, il fallimento dei negoziati di Doha, promossi da Washington in un vano tentativo di salvare il salvabile per il processo di pace. 

Alla fine, Washington ha voltato le spalle all’Afghanistan e l’accordo è stato fatto proprio con i Talebani, che hanno avuto campo libero prima nel conquistare villaggio dopo villaggio e infine la capitale. Oggi l’Afghanistan non è più uno Stato, ma un territorio comandato da un gruppo armato che, nonostante gli orrori commessi in passato, cerca un riconoscimento a livello internazionale, chiedendo addirittura di ospitare un emissario all’Assemblea Generale dell’ONU. Un riconoscimento che significherebbe legittimare il successo del movimento jihadista e delle numerose formazioni estremiste come ETIM (Eastern Turkistan Islamic Movement); Terik-e Taleban Pakistan; Al-Qaeda, alleato storico dei talebani; Khorasan, diramazione dell’Isis (o Daesh) che contribuirebbe a peggiorare non di poco lo scenario, e altri ancora al momento confinati nei Paesi confinanti o nello Yemen a sua volta dilaniato da una drammatica guerra civile. 

Come di pone, quindi, quel progetto del Sultano Erdogan che vuole fare risorgere l’impero ottomano in una nuova forma e che, con i Talebani nuovamente al potere, ha subito una deviazione non prevista? 

Fondamentalmente, la politica estera di Ankara riguardo all’Afghanistan si basa su alcuni concetti base, fra i quali unità e integrità del paese, sicurezza e stabilità, rafforzamento delle strutture amministrative, coinvolgimento attivo della popolazione nella vita politica; eliminazione delle cellule dell’Isis. In linea con questi obiettivi la Turchia si inserisce sia a livello bilaterale che internazionale nelle missioni delle Nazioni Unite e della NATO. È infatti nel ruolo che la Turchia vorrebbe assumere nella NATO che si trova la volontà politica di intervento in Afghanistan. 

Nel 2019 la Turchia acquistò dalla Russia il sistema di difesa antiaereo S-400, suscitando una reazione estremamente critica da parte della NATO, e causando le sanzioni degli Stati Uniti. Intervenendo in Afghanistan la Turchia vorrebbe quindi, in un certo senso, “riparare al danno”, dimostrando lealtà all’Alleanza Atlantica, e riconquistando la fiducia dei partner occidentali. Nei fatti, Ankara ha dichiarato la ferma intenzione di assumere la difesa dell’aeroporto internazionale di Kabul, lasciato incustodito dopo l’evacuazione americana, per consolidare agli occhi della comunità internazionale la sua presenza nel Paese. La dichiarazione però non è piaciuta ai Talebani, che hanno minacciato il personale turco intimando di lasciare il Paese, poiché non vogliono altre truppe straniere occidentali in territorio afghano, salvo poi concedere la ex base americana di Bargam all’aeronautica militare cinese, fatto da non trascurare assolutamente. 

Erdogan e i rifugiati 

Oltre alla situazione politica in sé, ciò che maggiormente preoccupa Ankara è il problema dei profughi, che però potrebbe essere utilizzato come arma. In questo, Erdogan è un vero specialista. Il ritiro americano infatti ha lasciato il Paese in condizioni economiche disastrose e la popolazione tenta il tutto per tutto alla ricerca di migliori condizioni e con il miraggio di un Occidente dove si vive nell’agiatezza. 

In Turchia, i rifugiati afghani rappresentano la seconda maggiore comunità dopo quella siriana, e dall’inizio di luglio, molti rifugiati afghani hanno raggiunto il confine turco-iraniano. Si può ipotizzare che nei prossimi mesi il loro numero aumenterà ancora. Secondo l’UNHCR attualmente sono oltre 115.000 i richiedenti asilo e un migliaio di rifugiati, con il rischio reale che l’ondata migratoria diventi incontrollata, con ripercussioni anche sull’area mediterranea, in cui attualmente sono in corso altre gravi crisi umanitarie, da quella siriana a quella libica. Ankara già ospita più di siriani, considerati sempre più un problema. L’afflusso di rifugiati, inoltre, divide l’opinione pubblica turca, e potrebbe portare al collasso una situazione già esplosiva. Per questo, la polizia e le forze armate turche hanno già respinto dal confine oltre 70.000 fuoriusciti e arrestato circa 900 persone, accusate di traffico di esseri umani, ed è già stato realizzato un muro di 155 km che, secondo il progetto originale, arriverà a 245 km. 

Poi c’è l’Europa, con la quale la Turchia domenica ha messo le mani avanti. Davanti alla futura ondata migratoria, vera preoccupazione dell’UE, è difficile credere che assuma lo stesso atteggiamento di sei-sette anni fa, quando la crisi dei rifugiati riguardava la Siria. 

Oggi in Turchia ci sono quasi 4 milioni di profughi siriani e circa 350.000 afghani, e non è difficile immaginare che Erdogan se ne serva ancora come strumento di minaccia politica per alzare la posta con l’Unione Europea. 

Nel frattempo, Erdogan è riuscito a scucire altri 3,5 miliardi di euro fino al 2024 per trattenere i profughi sul suo territorio, che si vanno ad aggiungere ai 6 miliardi stanziati nel 2016, pagati solo in parte secondo Ankara, che vorrebbe anche una ripresa dei negoziati per l’ingresso nella UE. 

In ogni caso, non è ancora chiaro come il Sultano di Ankara intenda gestire il problema, poiché non si conosce ancora l’orientamento dei Talebani riguardo la Turchia. L’unica certezza è che se Erdogan intende incrementare la sua sfera di influenza a livello regionale, non potrebbe avere occasione migliore. 

Afghanistan, Turchia e Qatar 

Uno dei temi principali, nelle trattative in corso, oltre alla definizione di equilibri e alleanze geostrategiche, è di certo la gestione dell’aeroporto di Kabul, porta di accesso all’Afghanistan dal punto di vista commerciale e non solo. Ai primi posti, per questo convenientissimo “appalto” ci sono Turchia e Qatar. 

L’obiettivo è consentire la ripresa dei voli commerciali, dei corridoi umanitari, e permettere di partire a coloro che, con i documenti in regola, intendono lasciare il Paese. Sono stati questi gli argomenti fondamentali della videoconferenza del 30 agosto, alla quale hanno preso parte i rappresentanti di USA, Qatar e Turchia, oltre ai governi del G7, alla NATO e al portavoce degli Affari Esteri della UE. 

L’aeroporto internazionale Hamid Karzai, teatro della strage costata la vita a 170 persone rivendicata dall’Isis-K, nelle ultime settimane era diventato campo di battaglia per il controllo della capitale, tuttavia i Talebani non avevano ritirato l’offerta fatta a Erdogan per il controllo dell’aeroporto, sempre sotto la loro diretta supervisione. Il Sultano sembra non aver preso ancora una decisione in proposito, perché sa bene che i Talebani hanno conquistato Kabul e molte province, ma non hanno ancora una struttura di governo definita, e questo vuoto di potere non fa che alimentare le mire delle formazioni terroriste, soprattutto l’Isis (o Daesh), estremamente desideroso di vendetta dopo la bruciante sconfitta di Raqqa, in Siria, nel 2017. A chi lo criticava per essersi seduto in questi giorni allo stesso tavolo con i Talebani, Erdogan ha risposto di “non potersi permettere il lusso di stare a guardare”, ma fino ad oggi è proprio ciò che ha fatto. La posta in gioco per Erdogan è, però, ancora più alta: la partita afghana serve alla Turchia per imporsi come interlocutore privilegiato del mondo arabo-musulmano, scalzando l’Arabia Saudita contro cui Ankara si è scontrata in Siria, e che ha duramente criticato per l’embargo contro il Qatar, poi revocato. Un’ambizione che Erdogan non ha mai nascosto, e che ha dimostrato aumentando notevolmente la propria influenza in Asia meridionale. 

Funzionari turchi affermano che Ankara ha avanzato la proposta di gestione dell’aeroporto durante l’incontro NATO dello scorso 31 maggio. Gli USA avevano già annunciato che avrebbero ritirato le truppe e, nei colloqui di maggio, i Paesi dell’Alleanza avevano discusso dei piani per l’uscita dall’Afghanistan, ma tutto è rimasto in stallo perché i nuovi padroni di Kabul hanno rifiutato con sdegno l’offerta turca, senza però chiudere completamente la porta. Infatti le autorità talebane si sono affrettate a precisare: “La Turchia è un grande Paese islamico. L’Afghanistan ha relazioni storiche con esso. Speriamo di avere stretti e buoni rapporti con la Turchia, quando in futuro verrà stabilito un nuovo governo islamico in Afghanistan”. In sostegno a tale affermazione, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavsoglu, ha affermato che la Turchia sta discutendo della sicurezza dell’aeroporto di Kabul con gli alleati, ma ha sottolineato che nessun Paese potrebbe gestire la missione senza supporto. In sostanza, non è un segreto che Erdogan sia interessato a espandere la propria presenza a Kabul e, inoltre, che voglia strappare il ruolo egemone agli altri contendenti, Cina e Russia, nei cui confronti Ankara vuole apparire come paladino difensore del mondo musulmano. D’altra parte, bisogna riconoscere che Erdogan è stato se non altro onesto (secondo un preciso schema preordinato) nell’avvertire la comunità internazionale sul pericolo di un ritorno dei Talebani al potere, ma lo ha certamente fatto secondo un ben preciso piano strategico-diplomatico attentamente elaborato a tavolino. 

Esiste, però, anche un altro aspetto che consentirà alla Turchia di mettere saldamente piede in Afghanistan, e cioè gli ottimi rapporti con il Qatar, altro attore protagonista nella vicenda. Non a caso, i colloqui fra USA e Talebani si sono svolti a Doha. 

Data la situazione attuale, poi, Erdogan è ben conscio che l’Europa ha bisogno della Turchia per poter gestire il problema delle ondate migratorie e perché il Sultano è la sola autorità a poter parlare con i Talebani, oltre al Qatar che però, ultimamente, sembra aver perso terreno. Il presidente turco è tuttavia molto attento nel gestire anche i rapporti con il Qatar, base delle diplomazie internazionali che hanno abbandonato Kabul, trasferendo a Doha le proprie ambasciate. 

Rimane un fatto assodato che il Qatar si sia mosso abilmente, quasi in sordina, fin dalla prima presa del potere dei Talebani, vent’anni fa, e lo ha fatto seguendo una strategia e una diplomazia complessa. In pratica, Doha contende ad Ankara la posizione di mediatore internazionale, e non è detto che i due Paesi possano spartirsi la torta afghana e disegnare una nuova strategia “di coppia”. 

Il legame Turchia-Qatar si è infatti consolidato nel corso degli ultimi anni, e non solo su basi economiche o politico-religiose (Fratellanza Musulmana) ma anche geostrategiche. Una visuale comune, per certi aspetti, con Erdogan che cerca di ampliare la sua influenza nell’area e con il Qatar che sa di essere diventato di nuovo fondamentale come alleato dell’Occidente, per la soluzione del problema afghano. Obiettivo cui si aggiunge anche quello, meno evidente ma altrettanto importante, di limitare (se non bloccare) le iniziative degli Emirati Arabi, rivali di entrambi i Paesi. 

Se la coppia Erdogan-Al Thani riesce ad essere interlocutore privilegiato con i Talebani, è chiaro che per la NATO il vero canale diplomatico e sul campo con l’Emirato potrebbero essere proprio i due Paesi mediorientali. 

Bibliografia 

“Le Royaume de l’insolence, l’Afghanistan: 1504-2001” – Michael Barry, 2002; 

“Afghanistan. Voyage au coeur de la barbarie” – Marc Epstein, 2001; 

“Afghanistan, Al-Qaeda and the Holy War” – Michael Griffin, 2003; 

“Fuori Fuoco. L’arte della guerra e il suo racconto” – Maddalena Oliva, 2008; 

“Foreign Military Studies Office, Whither the Taliban?” – Ali A. Jalali/Lester W. Grau 1998; 

“Globalized Islam” – Roy Olivier, 2004; 

“Taliban: Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia” – Ahmed Rashid, 2000. 

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