Le scienze naturali in età borbonica. Di Giuseppe Moscatt.

Fede e Scienza di Giacomo Maggiore.

La recente pubblicazione dell’ennesimo volume critico sul nostro Risorgimento (“Italiani per forza – Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare”, Milano 2021, di Dino Messina) riapre la querelle qualunquista e separatista, degna di un monumentale quadro di “fake news”, che si ripete  a  160 anni dall’Unità d’Italia. Si è visto spesso il pullulare di fonti di ispirazione neoborbonica, ultima delle quali, per rispettare l’equilibrio propositivo di tale parte alternativa, è quella di Gigi di Fiore (“Pandemia 1836”, Torino 2020) che da anni si batte per riscattare il presunto furto di identità meridionale operato nel Risorgimento dal Piemonte di Cavour e che questo ricercatore ritrova nella pandemia di colera del 1836 a Napoli, tentando di giustificare le azioni preventive e di profilassi del governo borbonico come più opportune di quelle adottate dal governo italiano.. Non è questo il luogo per aderire all’una o all’altra tesi e rinviamo alla lettura di quelle due indagini, non dimenticando neppure le analisi di Alessandro Barbero (per esempio, “I prigionieri dei Savoia, la vera storia della congiura di Fenestrelle”, Laterza, 2014) cui ribatté egregiamente Gennaro De Crescenzo (“Noi, i Neoborbonici, storia di orgoglio meridionale”, Napoli, 2016). Come si vede, il dibattito è infinito ed è anche un problema di fonti contrapposte, manipolate, imprecise e di parte, una biblioteca di storiografia dove la realtà storica si mescola col romanzo, come nel caso di Carlo Alianello, che negli anni ’60 scriveva il romanzo storico “L’eredità della priora” (Milano, 1963) che addirittura finiva al “Campiello” nella rosa conclusiva, dove si narravano le vicende di un giovane nobilotto locale che combatté contro i Piemontesi negli anni del brigantaggio. Del resto, un storico filoborbonico aveva compiuto nuove ricerche sul tema, Francesco Molfese (“Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, 1964) di scuola marxista, che aveva recepito quel fenomeno sull’onda delle idee di Carlo Pisacane e Carlo Cafiero. Stranamente le scuole socialiste dell’epoca – per esempio Denis Mack Smith – si soffermarono enfaticamente sulla inusitata alleanza ideologica del Molfese con il reazionario e nostalgico Alianello. Una scuola di storici meridionali però, in armonia al metodo storiografico francese degli “Annales”, introdusse un diverso livello di approccio al dilemma del processo unitario, se avesse avuto natura di coatto assorbimento o di libera adesione. Il catanese Domenico Ligresti – morto prematuramente nel 2014, forte della sua notevole preparazione filosofica – partendo da una serie di ricerche di storia moderna dedicate alla Sicilia orientale di studio del territorio e di valutazione dei relativi beni culturali e ambientali, ruppe la tensione ideologica degli anni ’80 pro e contro il processo unificativo, delimitando uno spicchio della questione, idoneo a rappresentare l’intero complesso degli eventi, vale a dire il tema della cultura scientifica nella Sicilia borbonica. Era evidente che la contrapposizione ideologica fra scuole marxiste e scuole liberali aveva per presupposto metodi astratti che confliggevano con i dati reali, certamente legati alle condizioni di povertà del Regno, all’isolamento degli studiosi specialmente di scienze naturali, di fatto legati alle nuove tecnologie e soggetti a volte ai dettami della chiesa cattolica, fra riforme e consensi popolari spesso presenti nel territorio. E quando un decennio fa apparvero i saggi della scuola catanese da lui diretta – “La cultura scientifica nella Sicilia borbonica” Giuseppe Maimone Editore – la scelta territorialista, di appartenenza al “basso” della storia, è sembrata la chiave per mediare le ambivalenti letture delle vicende risorgimentali. La storiografia postunitaria – sia liberale che socialista – estremamente positivista, aveva per Ligresti adulterato la storia reale del territorio e di chi di questo si era scientificamente fatto interprete. Occorreva invece, come aveva pronosticato il Gentile, riattivare una cultura e una scienza aperta alla vita e alla natura, le vere molle della storia, fuori dai preconcetti a tavolino che reggevano la grande politica, ma che dimenticava le dinamiche concrete del popolo e le loro necessità al di là, ma non certamente a prescindere, dalle tesi politiche, cui gli scienziati nel sud borbonico certamente non cedettero, come vedremo di seguito esaminando due figure esemplari di scienziati di diverso orientamento politico e religioso.

Giacomo Maggiore, un benedettino sotto Ferdinando II di Borbone.

La scelta territorialistica della scuola di Ligresti obbliga chi scrive ad evidenziare alcune figure emblematiche del periodo prescelto, quell’area temporale che le scuole tradizionali delimitano dall’età napoleonica all’età dell’Unità Nazionale, i sei decenni iniziali dell’800. E il primo campione di scienziato naturale prescelto è un monaco benedettino, Giacomo Maggiore, nato a Vizzini nel 1812, l’anno della famosa Costituzione liberale di Ferdinando IV di Borbone, all’epoca Re di Sicilia sotto il protettorato inglese contrario a Napoleone. Fin da quell’epoca, nuove famiglie nobiliari e alto borghesi venivano cooptate dai Borboni per avviare in Sicilia una rinascita legittimista, al fine di contenere i rigurgiti rivoluzionari che già a Napoli i francesi avevano instaurato nel regno di Murat. Del pari, la chiesa cattolica in meridione però non esasperò la conflittualità fra Scienza e Fede che lo sviluppo delle teorie darwiniane sulla specie e sull’età della terra e dell’Universo, portò a una laicizzazione delle Scienze, divampando nel quotidiano più che non negli atti ufficiali, fra creazionisti ed evoluzionisti, sul modello delle religioni protestanti che erano vincolate alla lettera della Bibbia, ma che già il Concilio di Trento aveva di molto ridimensionato di fronte alla fonte tradizionale, tanto che per la religiosità naturale in Sicilia si era dimostrata maggiore attenzione. Proprio la formazione educativa di quelle famiglie, legate un illuminismo moderato guidò il giovane Maggiore nella ricerca e nello studio delle Scienze Naturali. Del resto, quando nel 1822, la Congregazione del Santo Uffizio abolì la condanna delle teorie copernicane e la pratica dei viaggi in Sudamerica e in Asia a fini di conversione e assistenza di quelle conversioni, indussero gli statuti disciplinari e le metodologie di indagine del Maggiore, benedettino cassinese, a liberalizzare le ricerche di storia naturale, collaborando all’interno dell’ordine con altri benedettini. Primo fra tutti Emiliano Guttadauro, tanto che il Maggiore fece da guida sull’Etna al famoso vulcanologo Sartorius von Waltershausen, alunno del botanico e zoologo Johann Philippi, eminente scienziato illuminista prussiano. La biografia accurata del Sanfilippo, cui rinviamo per completezza di indagine e per acute considerazioni sul personaggio, ci permettono di concludere come quel cenacolo benedettino – pur nel loro abito talare che ricoprirono peraltro con dignità nel servizio parrocchiale nella provincia catanese e siracusana e più legati all’Accademia Gioena di Acireale – espresse un rilevante contributo scientifico allo sviluppo culturale del Regno, resistendo all’invasione “piemontese” ormai legata alla logica capitalista dello sfruttamento territoriale delle ben poche risorse di quelle terre, opponendo una fondamentale resilienza popolare e spirituale al progetto economicistico del Nord, cui il Verismo verghiano darà ampia testimonianza, pur se dolorosa, nelle figure del “Mastro Don Gesualdo” e dei “Malavoglia”.

Alessandro Rizza, liberale per la scienza.

A leggere i ricordi dell’amico De Benedictis, furono i Gesuiti a dire il peggio di lui, specie quando da giovane medico osò fondare nel 1843 a Siracusa un gabinetto di storia letteraria per la crescita comune dei giovani intellettuali di ambedue le culture, la classica e la scientifica. Era stata sua palestra intellettuale il Circolo degli Universitari di Catania, dove liberamente, negli anni ’30 dell”800, giovani medici, giovani avvocati e intellettuali letterati e scienziati, dibattevano le nuove idee di politica e società. Il suo credo, profondamente mazziniano, lo portò a disprezzare il regime politico borbonico, specialmente quando vide le stragi del 1837 causate anche dall’ignoranza sanitaria sulle cause di diffusione del terribile morbo del colera, esercitando la medicina fra i colerosi – ricordati in Mastro Don Gesualdo la figura del medico condotto? – divenendo a detta di tutti un angelo benefattore. Alessandro in quel frangente comprese lo stretto legame, fra libertà e cultura, le uniche armi atte a spuntare le armi della autocrazia borbonica. E perciò la nascita del gabinetto letterario, dove si trovarono riuniti tutti i liberali colti e aperti al futuro, dialoganti e propositivi, dove l’esperimento, la prova su prova di qualsiasi idea sul modello della scienza galileana, rompeva le opinioni di casta utili ad ogni potere oppressivo, ora la dinastia borbonica, ieri la chiesa cattolica, domani la logica capitalista. Nella assemblea così variegata di culture, splendido esempio di integrazione fu la cultura classica degli eredi di un Tommaso Gargallo, di un Saverio Landolina – gli eroi della cultura illuminista di Siracusa – dove spiccava il genio di un Salvatore Chindemi, storico progressista della Siracusa post-borbonica, unico intellettuale che seppe rendere gli onori dovuti ad August von Platen, poeta bavarese, morto a Siracusa nel 1835. Ma oggetto della descrizione del Gabinetto letterario non furono soltanto le politiche ma anche le scienze naturaliste, visto che il manifesto programmatico di Alessandro Rizza partiva dalla situazione sanitaria del suo paese, non molto lontana dalle vistose carenze profilattiche della città. I suoi studi spaziavano da una singolare topografia fisico-medica di Siracusa, ai materiali per la storia del Colera, all’Idroterapia e a un trattato di Igiene Pubblica. Non si mosse tanto da Siracusa, ma il territorio per le sue carenze gli bastava per diffondere la sua teoria del rapporto fra malattie e alimentazione, come quando intervenne al VII Congresso degli scienziati di Napoli del 1845, quando dalla sua ricerca sui fossili viventi e della descrizione di alcuni crostacei nel golfo di Catania del 1839, trasse le fondamenta per ulteriori saggi sulla propagazione via acqua del Colera stesso. Fu anche ornitologo, classificando uccelli di ogni specie per dimostrare il loro ruolo di veicolo per le stesse malattie. E non mancò di essere geografo e ingegnere, progettando l’incanalamento dei fiumi Cassibile, del Ciane e dell’Anapo. Difese il progetto per il canale di Suez, riconoscendo a queste opere grandi e piccole che fossero, non solo una funzione economica rilevante per lo sviluppo della Sicilia, ma anche uno strumento efficace di prevenzione per la Malaria, che all’epoca devastava tutto il siracusano. Ma venne il 1848 e qui propose, insieme a tanti intellettuali siciliani e nazionali, un effettivo plebiscito popolare che legasse la Sicilia al Piemonte, ma non fu ascoltato dalla nuova borghesia della città, che poco dopo dieci anni accettò il compromesso garibaldino, peraltro da lui rifiutato perché foriero di quel blocco sociale agrario e non produttivo che Tommaso di Lampedusa mise in bocca a Tancredi Salina nel drammatico colloquio col Principe del “Gattopardo”. Prova ne fu la rivolta filoborbonica a Palermo del 1866, quando prevalse per ignoranza la teoria del quando si stava peggio si stava meglio, frutto di quella incultura popolare che ancora oggi fa capolino fra le masse italiane, specialmente nel momento in cui riappaiono gli spettri della crisi economica e sociale senza contare la presente pandemia. La natura rivoluzionaria di Alessandro Rizza emerge da un suo epitaffio che starebbe egregiamente sulla sua tomba: “La verità è scienza, è giustizia, è libertà”. E quando in quell’anno 1866 avvennero quei motti antiunitari, al Consiglio Comunale, non si spaventò di aderire alla scuola positivista democratica, affermando qualche giorno prima di morire che il Porto di Siracusa era un grande capitale, che sarebbe stato utile per la città e l’intera nazione. Ma fin quando non attraccheranno navi quel capitale sarebbe stato sempre improduttivo. Morì improvvisamente qualche ora dopo, con la speranza che un giorno le sue idee non fossero dimenticate. E oggi in epoca pandemica, il suo giudizio – al pari del cattolico Maggiore che nel 1882 aderì ai circoli cattolici catanesi favorevoli alla diffusione della “Rerum Novarum” di Papa Leone XIII – può fungere da esempio di scienziato inserito nella lotta alle epidemie che da sempre hanno afflitto il nostro territorio.

Bibliografia:

-Per verificare sommariamente il contributo scientifico italiano in età preunitaria (1815-1860) vd. La cronologia universale del grande dizionario enciclopedico UTET, Torino 1979.

-Su Alessandro Rizza, cfr. EMANUELE DE BENEDICTIS, Memorie sull’ingegno, gli studi e gli scritti del  medico Alessandro Rizza Siracusa, 1868.

-Su D. Giacomo Maggiore cfr, LUIGI SANFILIPPO, Giacomo Maggiore, monaco di S. Nicolò l’Arena, scienziato e parroco tra Borboni e Savoia, in “Benedictina”, rivista del Centro storico benedettino Italiano, nr. 2, Luglio-Dicembre 2013.

-Per la figura di Domenico Ligresti, vd. la rivista “Trinakie, Studi di storia e arte, fasc. nr. 2, 2015, Di Pasquale Editore. Vd. altresì, DOMENICO LIGRESTI, Manuale di storia moderna, secoli XVI -XVIII, Giuseppe Maimone editore, Catania, 2014.

-Sull’opera di Denis Mack Smith, vd. LUCY RIALL, La Sicilia e l’unificazione italiana, Enaudi, 2004.

-Da ultimo vd. altresì LUIGI SANFILIPPO, Fede e Scienza nella Sicilia dell’Ottocento. Il Benedettino Giacomo Maggiore, (1812-1884), Edizioni Efesto. Roma, 2021.

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