Apologia ragionata della guerra. Di Marco Cimmino.

De la Guerra (testo).

Aspettando la guerra

Nemmeno troppo tempo fa, con semplicismo commovente, la guerra veniva proposta ai giovani come l’effetto di un meccanismo elementare: i ricchi ed i potenti dovevano difendere i propri interessi e, a tale scopo, facevano le guerre. La povera gente veniva, perciò, mandata al massacro, con dei risibili pretesti ideologici: ed essa, supinamente, con lo stesso fatalismo un po’ bovino con cui azionava telai o spingeva aratri, manovrava la terribile macina della battaglia. Alla fine, ricchi e potenti si mettevano sempre d’accordo tra loro, mentre il popolo se ne tornava a casa senza un grazie. Si tratta di una visione piuttosto affascinante della storia dell’umanità: peccato che sia anche piuttosto fantasiosa. Sarebbe bello e tranquillizzante pensare che esistano due umanità distinte: la prima, quella ricca ed egoista, decide a tavolino dove scatenare la prossima apocalisse, per vendere le proprie armi, i propri giornali, le proprie bende, il proprio uranio impoverito. La seconda, che è quella che, evidentemente, raccoglie le simpatie di ogni uomo di buona volontà, si limita a recalcitrare, in varia forma[1], di fronte alla porta del mattatoio e, poi, a versare il proprio sangue innocente e quello dei propri fratelli dell’altra sponda. Questo universo a due piani, penthouse & pavement, è la grande scoperta del pensiero marxista: la lotta di classe che si contrappone alla guerra borghese. Davvero sarebbe la più felice delle spiegazioni: peccato che le cose non funzionino così. Lasciamo perdere l’antichità, quando i poveracci alla guerra non potevano neppure partecipare[2]: le guerre moderne sono state tutte quante affatto peculiari, sia per cause, che per svolgimento, che per esiti. L’idea di paragonare l’esercito professionale inglese della guerra boera con quello semivolontario della guerra civile americana, con le leve di massa francesi e italiane della Grande Guerra, è operazione storicamente assurda. Così come è assurdo pensare che le motivazioni di una guerra coloniale possano essere le medesime di quelle di una rivoluzione armata. E che dire di una guerra borghese che, di fatto, permise al popolo di abbattere proprio dei regimi borghesi, cosa che accadde puntualmente in moltissimi Paesi europei, Italia compresa, per conseguenza della prima guerra mondiale[3]? Come si vede, la questione è molto più complessa di come tenda a presentarla il pensiero unico: perfino Lenin se n’era accorto, proclamando la guerra “levatrice della rivoluzione”.  Altri, viceversa, si stupirono della paura della borghesia per la guerra, come Vilfredo Pareto, che pure era uno che possedeva un bel cervello: egli sostenne, in tempi non sospetti, che “…se c’è una grande guerra europea, il socialismo è ricacciato indietro almeno per un mezzo secolo. E la borghesia è salva per quel tempo.”[4] Pareri diversi, come si vede, perfino sullo stesso fronte: questo emerge, analizzando i fenomeni polemici dell’Età moderna. E, in particolare, proprio la Grande Guerra rappresentò un punto di rottura del pensiero politico e sociale di matrice ottocentesca: da una parte, essa fu la morte del Positivismo, che aveva dominato la seconda parte del XIX secolo e, dall’altra, fu la realizzazione delle aspirazioni di una massa proteiforme di persone, che soffocavano nella palude dell’Europa liberale e monarchica. Fu la morte dell’umanità, ma fu anche la culla di un’umanità nuova: un’umanità nè peggiore nè migliore, ma, certamente, diversa. Così, parlando della Grande Guerra vista con gli occhi degli intellettuali e, segnatamente, dei poeti, non si può non notare l’estrema varietà dei giudizi e delle posizioni: anzi, proprio questa varietà ne fu l’elemento distintivo.

Prima del diluvio

Il brodo di coltura da cui scaturì la Grande Guerra funzionava già da decenni, quando le pistolettate di Gavrilo Prinzip scatenarono il conflitto: scaramucce coloniali[5] e revanscismo[6], indebolimento degli imperi sovranazionali e potenziamento dell’industria, avevano già segnato il cammino verso la catastrofe. Eppure, in Europa, ben pochi avrebbero creduto nel suicidio di una civiltà: questo è il dato che balza per primo agli occhi. Va detto anche che, per l’Italia, una guerra europea avrebbe avuto ben altro significato, rispetto a tutte le altre potenze continentali: fin dalla guerra di Crimea (1855-56), i Savoia avevano interpretato le guerre internazionali come un’occasione per loro di incrementare il proprio dominio sulla Penisola[7]. La guerra austro-prussiana (1866) aveva permesso di aggiungere al neonato Regno d’Italia la Venezia Euganea, nonostante gli imbarazzanti disastri di Custoza e Lissa, così come quella franco-prussiana del 1870 aveva distolto i Francesi dalla loro caparbia difesa del Santo Padre, permettendo ai soldati di Raffaele Cadorna di entrare a Roma da Porta Pia. Va da sè che, alla vigilia di una nuova guerra, inevitabilmente, negli ambienti vicini alla Corte, si sentisse odore di acquisizioni territoriali. Quando venne il momento per l’Italia di decidere se partecipare o meno al conflitto, la guerra non era un’eventualità astratta: era già scoppiata. In questo contesto bisogna giudicare l’assoluta specificità dei fenomeni, tutti italiani, dell’Interventismo e del Neutralismo, che animarono la pubblicistica dei mesi che precedettero il 24 maggio 1915. Bisogna, del pari, tener conto che, per molti Italiani, quella guerra non era la prima guerra mondiale, ma la quarta guerra d’indipendenza. Di qui discendono i giudizi, diversissimi tra loro, circa la necessità o meno di una nostra entrata in guerra. D’altronde, se c’era chi vedeva nella guerra l’ostetrica della rivoluzione, come i sindacalisti rivoluzionari di discendenza soreliana, vi era anche chi, come, ad esempio, Enrico Corradini, direttore del giornale nazionalista Il Regno, giudicava il conflitto un’arma straordinaria per arginare proprio il socialismo e garantire un ritorno all’ordine pubblico, oltre che una manifestazione della “coscienza guerresca da opporre alla coscienza pacifista”[8]. A ciò si aggiungano le sirene formidabili, rappresentate da Trento e Trieste, irredente e viste quasi in un alone mistico-mitologico da molti intellettuali, per capire che il quadro, alla vigilia del “maggio radioso” era tutt’altro che monocromo. Già nel 1909, il creatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, proclamava Trieste: “Faccia purpurea e violenta dell’Italia, rivolta verso il nemico (…) nostra unica polveriera!”, scagliandosi contro tutti coloro che riteneva essere d’ostacolo al naturale espandersi delle razze: passatisti, avveniristi e internazionalisti. Il violentissimo e bellicoso linguaggio antiaustriaco di Marinetti lasciò il segno, e fu il modello, insieme a quello di Gabriele D’Annunzio, della pubblicistica interventista. Questo richiamo alla guerra come turbine ed accelerazione della storia, contrapposto alla staticità di una società liberale, inchiodata ai propri principi, dettati, in sostanza, dalla vigliaccheria, animò il pensiero di molti pensatori di quegli anni, e fiorì in gran parte sulle pagine di quelle riviste nuove, di cui dicemmo nel paragrafo dedicato alla mobilitazione totale permanente, come La Voce, di Prezzolini, su cui un filosofo del calibro di Giovanni Amendola ebbe a scrivere: “Ma gli uomini, nonostante sappiano che dalla guerra non avranno vantaggi materiali, continuano a prepararsi alla guerra, e c’è da prevedere, senza esser profeti, che si combatteranno per l’avvenire, come si son combattuti per il passato. Ciò vuol dire che gli uomini preferiscono i mali della lotta, e il rischio, e il dolore, ed anche la morte, a quello stato di pace in cui tutta la vita fosse dominata da motivi economici e regolata saggiamente in base al tornaconto…”[9]. Come si può vedere, era largamente diffuso, negli anni che precedettero la guerra, un sentimento di ribellione per quelle regole di vita che il Positivismo aveva introdotto, e che venivano considerate come espressione di materialità e, infine, di panciafichismo. Non a caso, allo scoppio delle ostilità, Amendola avrebbe lasciato l’università di Pisa, per partire volontario, insieme a moltissimi altri intellettuali come lui. D’altra parte, era ben chiaro a molti il fatto che questa guerra non sarebbe stata come tutte le altre: che avrebbe rappresentato una cesura netta tra il vecchio mondo nato dal congresso di Vienna e un mondo nuovo, misterioso e terribile, ma anche straordinariamente affascinante. E non parteciparvi avrebbe significato perdere una grande occasione per plasmare il futuro dell’umanità. Giuseppe Prezzolini, scrisse su La Voce del 26 agosto 1914 (si noti la data) parole fondamentali per comprendere questo punto: “Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si compie (…) ed il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. (…) Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione?”. Eppure, nelle stesse pagine, proprio Prezzolini postula l’esistenza di un’ulteriore possibile vigliaccheria: l’entrata in guerra per comodità, in linea con quanto abbiamo scritto poco sopra, a proposito della tendenza sabauda ad approfittare delle contingenze per fare il proprio interesse. Questo rispecchia perfettamente un certo atteggiamento incline al mercanteggiare, che caratterizzò l’attività diplomatica italiana di quei mesi, tra Intesa ed Alleanza, in una sorta di asta sulla nostra entrata in guerra con uno dei due schieramenti. Ebbene, Prezzolini rifiuta le ragioni della convenienza: “Andiamo con l’idea che è dovere andare, non con l’idea che mette conto andare. Siamo guerrieri e non mercanti…”. Quindi, anche all’interno dello schieramento interventista, sono necessari numerosi distinguo: da un lato potremmo collocare le ragioni della mente e dello stomaco, che vedevano nella guerra la possibilità concreta di ottenere (anche solo restando neutrali) consistenti cessioni territoriali dall’Austria-Ungheria. Dall’altro, però, vi era una fortissima tensione eroica, che nasceva da una generazione allevata nel culto degli ideali risorgimentali, ma che non aveva mai avuto l’occasione di mettersi alla prova. Per costoro, la Grande Guerra divenne un palcoscenico formidabile: un’incudine su cui temprarsi o bruciare. In altro lavoro, parlando di D’Annunzio, indicammo le parole d’entusiasmo con cui salutò lo scoppio delle ostilità: come una liberazione. L’occasione era venuta. Finalmente, la guerra![10] Proprio così salutò il conflitto immane Giovanni Papini, in una pagina de Lacerba, dell’autunno 1914: “Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. (…) E’ finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria.”. Erano dunque completamente impazziti, tutti questi scrittori, che inneggiarono entusiasticamente al massacro e alla battaglia? In un certo senso, sarebbe meno inquietante per noi pensare ad una sorta di follia collettiva: e leggendo certe espressioni di Papini, come quelle sui vantaggi per l’agricoltura derivanti dalla concimazione coi cadaveri dei campi, verrebbe da pensarlo. Eppure, a parte i paradossi e le provocazioni papiniani, dobbiamo ammettere che vi fu, nell’amore per la guerra dei cantori dell’intervento, soprattutto una reazione feroce e, a volte, scomposta, ad una vita senza eroismo. Crediamo che la sciagurata frase di Bertolt Brecht sul bisogno di eroi sia una delle peggiori idiozie che mai letterato abbia concepito (e Dio sa se ne hanno concepite!). Una Nazione non può vivere a lungo senza eroi: ne ha bisogno per riconoscersi e per sentirsi viva. E gli eroi più sacri e  più disinteressati non possono che essere i martiri guerrieri: altrimenti, si cerca di fabbricarsene di deteriori, e si arriva a definire eroe un calciatore o un fotomodello. Certo, la guerra è cosa terribile e piena di sofferenze: ma l’uomo, paradossalmente, ne ha bisogno, per ritrovare i propri valori, la propria essenzialità, addirittura per apprezzare la pace. Non è che anche chi scrive sia stato aggredito da questo virus guerrafondaio: eppure, ai tempi belli della giovinezza, egli pure constatò quanto possa lo spirito sulla mente. Egli provò su di sè e vide sui coscritti il fascino magnetico dell’alzabandiera e la purità del sentimento della Patria. E ne conserva abbastanza buona memoria da garantire al lettore che gli interventisti arrabbiati non eran pazzi. Semmai erano invasati: ed è cosa affatto diversa. Nessuno si sognerebbe di dire che Leonida fosse matto come un cavallo: perchè lo si dovrebbe pensare di Marinetti o di Prezzolini? A questo si aggiungano le spiegazioni razionali, di cui lo scrivente difetta, essendo egli eminentemente uomo di trippe, ma di cui lo può benissimo sovvenire il filosofo Giovanni Gentile, neoidealista e, naturalmente, favorevole alla guerra, che, in una conferenza palermitana dell’ottobre 1914, così si espresse a proposito della guerra come atto assoluto: “La guerra non è il conflitto di un certo numero di Stati. Questo è bensì un carattere necessario, ma uno solo dei caratteri di essa; e non è nè anche l’urto di due tendenze o forze della politica mondiale (…) Non è adunque, soltanto, una crisi economica, giuridica e politica (…) Si tratta, si badi, come sempre, di uno sforzo in cui tutto, il Tutto, è impegnato: di un atto assoluto. (…) Il nostro supremo e in questo senso il nostro unico interesse.”. Gentile non si limitò a descrivere l’essenza della guerra, ma affrontò, nella medesima circostanza, il problema cardinale per un intellettuale di quegli anni: “E dobbiamo noi, uomini di pensiero e di studio, gridare guerra o pace ai popoli, supposto che questi possano ascoltare la nostra voce?”. La prima cosa che il filosofo disse essere il dovere di un pensatore è “tacere”: porsi umilmente di fronte alla grandezza degli avvenimenti e non unire la propria voce al coro schiamazzante dei soloni da quattro soldi, sempre pronti a spiegare quale sia il bene della Patria, sia che si tratti di guerre che di partite di calcio. La seconda è accettare la necessità ineluttabile della guerra e guardare al nemico senza odio, come ad un fratello che condivida con noi il compimento di un dovere supremo, cui tutti, intellettuali in testa, devono concorrere. E gli intellettuali concorsero ampiamente, facendo, anzi, a gara per chi raggiungesse il fronte per primo. Ma non precorriamo troppo i tempi: ci troviamo ancora nella fase di gestazione della guerra. Abbiamo detto dei fautori, talvolta forsennati, dell’intervento: essi ebbero voce potente, ma rappresentavano, tuttavia, una netta minoranza di fronte al Paese. E’vero che tale rapporto di forze, se si esamina soltanto la categoria dei letterati, variava sensibilmente a favore del bellicismo; tuttavia non dobbiamo dimenticare che molti intellettuali di allora si mostrarono tiepidi o addirittura decisamente ostili nei riguardi dell’intervento italiano nelle ostilità già in corso. In testa a tutti, naturalmente, quelli che oggi definiremmo gli uomini della sinistra, socialisti in testa, che bollarono il conflitto come strumento d’oppressione delle borghesie europee e non esitarono a scrivere “Abbasso la guerra!” nei loro quattro manifesti contro la guerra[11]. Accanto ai socialisti, si dicevano nemici della guerra anche i liberali di sinistra, i radicali, gli anarchici e buona parte dei cattolici. Proprio in seno al blocco socialista, però, cominciarono a distinguersi posizioni diverse sulla questione dell’intervento: da una parte, Leonida Bissolati ed i suoi e, dall’altra, i massimalisti rivoluzionari, cominciarono a parlare una lingua diversa. Le loro ragioni erano, sostanzialmente, opposte: i primi credevano che, nell’eventualità di una guerra, gli Italiani avrebbero comunque dovuto compiere il proprio dovere[12], mentre i secondi abbracciavano la teoria della strage levatrice della rivoluzione. Vicino alle posizioni del socialismo moderato e del liberalismo meno conservatore fu, ad esempio, il grande filosofo Benedetto Croce, che, alla fine del 1914, scriveva su Italia nostra: “La guerra è come l’amore e lo sdegno: qualcosa che mille raziocini ed incitamenti non producono, ma che, a un tratto, non si sa come, si produce da sè, invade l’anima e il corpo, ne centuplica e indirizza le forze, e si giustifica da sè, per il solo fatto che è ed agisce. Auguro al mio Paese di far la guerra solo quando sarà entrato spontaneamente in questa crisi di amore e di furore, che è arra di vittoria o, almeno, di lotta gloriosa.” . Sono parole diverse da quelle che ci si sarebbe aspettati da Croce, a dimostrazione del fatto che, nelle contingenze della storia, l’opinione di ognuno va presa per quello che è in quel momento, a prescindere dalle sue scelte anteriori o successive. Sull’altro versante, ossia su quello massimalista, tempestava, con ben altra prosa, Benito Mussolini, che, da direttore del quotidiano socialista Avanti!, nell’ottobre del 1914, fece propria la dottrina della “neutralità attiva ed operante”, che l’avrebbe portato, di lì a poco, all’espulsione dal partito e alla decisa deriva interventista. Fondato un nuovo giornale, Il Popolo d’Italia, Mussolini iniziò una formidabile campagna a favore dell’intervento, giustificandola paventando una vittoria dei “barbari” tedeschi, che sarebbe stata fatale per l’Europa, sia borghese che proletaria. Così, questo Mussolini prefascista, si rivolgeva alla gioventù italiana, esortandola a combattere a fianco dell’Intesa: “(…) E’ a voi, giovani d’Italia; giovani delle officine e degli atenei; giovani d’anni e giovani di spirito; giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di <<fare>> la storia; è a voi che io lancio il mio grido augurale, sicuro che avrà nelle vostre file una vasta risonanza di echi e di simpatie. Il grido è una parola che io non avrei mai pronunciato in tempi normali, e che innalzo invece forte, a voce spiegata, senza infingimenti, con sicura fede, oggi: una parola paurosa e fascinatrice: guerra!”. Come si vede, la metamorfosi da socialista a fascista era già iniziata nel futuro Duce; e proprio lui ci dice che fu la guerra ad originare questa metamorfosi. Come nel caso di Mussolini, così in quello di milioni di altri giovani italiani, la Grande Guerra avrebbe rappresentato il punto di non ritorno, oltre il quale non si poteva più accettare il mondo borghese e pacifico del liberalismo dell’Italietta. Nel bene e nel male, il futuro sarebbe stato dell’Italia, senza diminutivi. Una cosa notevole di quei giorni è anche la nascita di una nuova retorica: di un nuovo stile letterario ed esistenziale insieme. Principale interprete di questa tendenza fu, naturalmente, Gabriele D’Annunzio: suo epigono, rozzo ma efficace, fu lo stesso Mussolini. Si confronti, ad esempio, il celebre periodo dannunziano dell’arringa al popolo romano del 13 maggio 1915 (“Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo.”) con quello altrettanto celebre che Mussolini indirizzò al parlamento a proposito delle violenze squadriste (“ se il fascismo è un’associazione per delinquere, io sono il capo di questa associazione per delinquere…”): l’analogia potrebbe apparire stupefacente, se non si conoscesse l’enorme debito che la retorica del Ventennio contrasse nei riguardi di D’Annunzio, in particolare, e della cultura interventista più in generale. In realtà, bisogna tener conto del fatto che, proprio durante la guerra e a causa della guerra, si formò quell’enorme carica d’energia politica e sociale che portò all’ascesa del fascismo: è del tutto normale, dunque, che la maggior parte degli intellettuali fascisti si fosse formata su quel tipo di retorica e di visione della vita, esattamente come le generazioni precedenti si erano abbeverate di Risorgimento. Stava nascendo, nell’Italia del 1914-15, una nuova epopea, che avrebbe dato vita ad una nuova epica: terminava l’età dell’intervento e cominciava quella della guerra vera e propria.


[1] Girotondi, manifestazioni, bandiere e stendardi alle finestre, scioperi sessuali (Lisistrata) e sindacali

[2] Alla formazione dell’esercito, in quasi tutte le civiltà antiche, si concorreva in base alla propria nascita o alla propria ricchezza: sia nell’oligarchica Sparta che nella democratica Atene la plebe urbana e contadina non partecipava alle battaglie

[3] Crediamo bastino, come esempi contrapposti, la rivoluzione sovietica e quella fascista

[4] In un articolo su Il Regno del 21 febbraio 1904

[5] Gli incidenti di Fascioda (la cosiddetta “guerra di Fascioda” 1898-1906) tra Gran Bretagna e Francia e di Agadir (1911) tra Francia e Germania

[6] Si chiamò così lo spirito di rivincita (“revanche”) radicatissimo in Francia dopo la sconfitta del 1870 e la perdita di Alsazia e Lorena)

[7] Dopo gli accordi segreti di Plombières (1858), Napoleone III affiancò il Piemonte nella seconda guerra d’indipendenza

[8] Parole pronunciate in un discorso a Savona, nel  dicembre 1913

[9] 2 marzo 1911, nella recensione del libro di N. Angell The great illusion

[10] Je ne suis plus en terre d’exil,/je ne suis plus l’étranger à la face blême,/je ne suis plus le banni sans arme ni laurier.

[11] Si tratta dei manifesti elaborati dalla Direzione socialista il 29 luglio, il 22 settembre ed il 20 ottobre 1914, nonchè di quello pubblicato la vigilia della nostra entrata in guerra, il 23 maggio 1915

[12] Questo atteggiamento fu comune a molti giovani intellettuali, non interventisti, ma neppure sabotatori, che accettarono di compiere il proprio dovere fino in fondo, “in ossequio alle sacre leggi della Patria”: tra loro, esemplare fu il caso di Renato Serra, che ne scrisse in modo limpidissimo nella sua riflessione intitolata Esame di coscienza di un letterato, pubblicata su La Voce il 30 aprile 1915 e che sarebbe caduto il 20 luglio successivo sul Podgora.

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