Karl Jaspers e il rapporto filosofia-teologia. Di Martina Vullo.

Karl Jaspers.

Erede del pensiero kierkegaardiano quanto della speculazione tedesca di Kant e Lessing, che è sempre teologica ma sul piano della ragione, memore, altrettanto, del pensiero platonico, la riflessione jaspersiana presenta l’esistenza e la ragione, nel loro complesso relazionarsi, come le due strutture ultime dell’uomo parimenti attratte dalla Trascendenza. La loro sinergia feconda fa sì che la memoria delle profondità insondabili dell’anima si chiarifichi nella trasparenza del «lógos», facendosi reale esperienza, e che la ragione divenga infinito e mai appagato impulso verso l’Uno che lega in un’inesausta tessitura la trama del reale.

La filosofia crea il suo spazio, che si fa spazio per la Trascendenza. Il filosofo  designa la sua filosofia come «fede filosofica». L’intenzione jaspersiana si rivela, in un orizzonte di onestà intellettuale, di operare una trascrizione dei contenuti tradizionali del pensiero filosofico in un diverso registro formale, non più quello della speculazione, ma piuttosto quello del conoscere concreto della fede. Si deve abbandonare la pretesa della filosofia di costituirsi come sapere speculativo: dell’essere più proprio dell’uomo, del mondo e di Dio si potrà parlare soltanto nei termini di un’adesione vissuta in prima persona e non in quelli oggettivanti.

Il pensatore tedesco ritiene che si debba mantenere sempre un rapporto vivo con quanto altri hanno pensato di Dio. Tutto questo non può, né essere ritenuto universalmente valido allo stesso modo di un’affermazione scientifica, né essere semplicemente messo da parte come una mera opinione. Si tratta, invece, di mettere in rapporto la tradizione di pensiero con il modo in cui noi, come esistenza, riconosciamo di non esserci dati l’essere da noi stessi, riconosciamo che l’essere è un dono che abbiamo ricevuto dalla Trascendenza. Per il filosofo si dà una conoscenza della Trascendenza, ma non della Trascendenza in se stessa, quanto invece attraverso qualcosa che funge da mediazione: le «cifre». Ciò che è eterno nelle rivelazioni religiose parla al singolo come cifra. Questa si presenta come la stessa tematica della Trascendenza. Quest’ultima è intrinsecamente unita all’immanenza, senza però risolversi in essa. L’unione intrinseca tra Trascendenza ed immanenza dipende a sua volta da un’altra unione intrinseca, quella tra Trascendenza ed esistenza. Non si può comprendere l’intima natura della dimensione intrinseca dei due rapporti, Trascendenza-immanenza e Trascendenza-esistenza, se non si tiene in considerazione da una parte che si tratta di rapporti dialettici e dall’altra che il momento di dimensione intrinseca non si risolve mai nel momento d’identità. Pertanto, tutta la problematica inclusa nella dimensione dell’essere in rapporto alla diade Trascendenza-immanenza si trova nella dimensione della cifra, per cui questa rappresenta l’espressione più alta della metafisica filosofica jaspersiana.

La cifra rappresenta la dimensione dell’eternità dell’essere. Essa, essendo ad un tempo Trascendenza ed immanenza, non può mai essere definita in quanto sfugge ad ogni rappresentazione, quindi rappresenterebbe un ponte tra la dimensione divina e la dimensione mondana, che non verrebbero più considerate come assolute, per cui l’ambito della divinità cesserebbe di rimanere estraneo rispetto all’ambito del mondo. La cifra si pone secondo il filosofo di Oldenburg come termine di mediazione tra l’esistenza e la Trascendenza. Nella percezione del linguaggio simbolico si articola il rivelarsi della Trascendenza all’esistenza. Quest’ultima è il luogo della lettura della scrittura cifrata. Le cifre sono l’aspetto di verità di quei concetti, sia metafisici, sia di origine religiosa, mediante i quali l’uomo ha cercato di strappare il velo del Deus absconditus per farne un Deus revelatus. Quei concetti, filosofici e religiosi, devono essere riconsiderati nel loro valore conoscitivo ed essere compresi non come ciò attraverso cui è presente l’oggetto della Trascendenza, ma come cifre di ciò che attraverso essi si rivela. Quest’ultime appartengono tanto alla metafisica quanto alle religioni e sono ciò attraverso cui la Trascendenza viene a manifestazione, ma, non sono pura manifestatività, non tolgono il velo al Deus absconditus al punto di farcelo conoscere. Il Dio nascosto retrocede in una sempre più profonda lontananza ogniqualvolta si tenta di afferrarlo e conoscerlo universalmente e definitivamente. Le cifre sono il determinarsi concreto del rapporto dell’uomo alla Trascendenza, e quindi ci parlano di quest’ultima, ma non sono mai il rivelarsi dell’essere in sé di questa. La lettura della scrittura cifrata rappresenta la pietra angolare che connette ontologia e metafisica. Essa consiste nel riconoscere in ogni oggetto, proprio per la sua oggettualità (cioè per la sua disponibilità all’indagine), una cifra della Trascendenza, cioè di ciò che non può essere oggettualizzato ed anzi sta alla base di ogni oggetto come suo fondamento e terreno.

Soltanto una filosofia delle «cifre», consente di preservare l’essere autentico della Trascendenza.

L’essenziale non è costituito dalla parola dei teologi, ma dal rapporto in prima persona dell’uomo con Dio. Nel presente della coscienza si rivela l’evento religioso: la coscienza, nella sua capacità discriminatrice e valutatrice, è quindi il luogo originario dove il singolo può riconoscere la religione autentica. Il  pensatore tedesco, all’interno della sua fede filosofica, propone una diversa appropriazione della tradizione biblica, rispetto a quella che la fede religiosa della Chiesa, con la teologia, ha eseguito. È fondamentale prendere in considerazione la Trascendenza attinta al culmine del moto di trascendimento che, pur aperto allo spazio dell’eterno, mai smarrisce il nesso ctonio con l’ambiente e con la storia, e la libertà esperita sul piano dell’esistenza. Questi due poli del discorso jaspersiano coincidono con la fede filosofica. Di essi, occorre sottolineare la costitutiva storicità, ossia l’essere sostanziati dalle cifre che tessono la trama di un éthos comune, che per l’Occidente significa, insieme alle radici greche, la Bibbia. Rinunciare al traditum storico, in primis biblico, equivale a sprofondare nel nichilismo. Irrinunciabili, dunque, appaiono al pensatore la memoria storica e l’assimilazione etico-ermeneutica del passato. La fede filosofica può pretendere di realizzare una comprensione più autentica della tradizione biblica solo in quanto presenta la teologia in una forma chiusa che certo essa può avere assunto storicamente, ma che non esprime la sua essenza. Ciò contro cui il filosofo combatte è l’astratta materia dei contenuti dogmatici della fede, non la viva comprensione teologica di essi.

La fede cristiana nella rivelazione, considerata nella sua forma ecclesiastica, non è riuscita a realizzare l’éthos della verità in modo tale da acquistare, grazie alle azioni, alla prassi di vita, al pensiero ed a delle personalità, una forza di convinzione valevole per tutti. Oggi andiamo cercando un terreno comune nel quale gli uomini provenienti dalle più diverse confessioni di fede possano attraverso il mondo incontrarsi in modo significativo e siano disposti ad assimilare di nuovo la propria tradizione storica. Il terreno comune per la molteplicità delle espressioni di fede potrebbe essere solamente la chiarezza del modo di pensare, la veridicità e un comune sapere di base.

Occorre trovare nella tradizione filosofica un possibile soccorso al disincanto del mondo, eludendo l’aut-aut tra fede confessionale e nichilismo. Il pensiero jaspersiano può essere considerato come una filosofia che comunica con la rivelazione. Il filosofo tedesco ha fatto proprio della comunicazione il sigillo del suo filosofare. La fede filosofica è inseparabile dalla disponibilità incondizionata al rapporto comunicativo.

La fede filosofica, se è autentica, non si consolida in un involucro, in un contenuto dogmatico, in una filosofia conclusa. L’opera filosofica è sempre soltanto lo stimolo per il filosofare di un esistente, e la verità filosofica include sempre, assieme al contenuto di pensiero oggettivato nell’opera, l’esistenza concreta e storica del filosofo. L’operazione che essa intende compiere non è quella di trascrivere il linguaggio religioso entro quadri intellettivi, ma si tratta di far alitare nelle Chiese il respiro della libertà. Per Jaspers è centrale il ruolo delle comunità religiose, come unico veicolo di un’autentica paidéia religiosa. Egli vede nei processi di secolarizzazione e nella possibile sparizione delle Chiese una minaccia non solo per la vita degli uomini, ma per la stessa filosofia, che alla religione si alimenta come alla sua fonte. Il compito della fede filosofica risiede nel rendere parlante e accessibile alla moltitudine degli uomini contemporanei il traditum biblico che richiede l’ineludibile cooperazione e l’apporto delle Chiese.

Occorre ora chiedersi in quale forma un’autentica assimilazione della fede biblica si offra all’interno delle istituzioni ecclesiali e chi ne sia, o possa esserne, l’interprete. È nella figura del pastore d’anime che il pensatore tedesco vede il soggetto di una concreta comunità religiosa. Questa figura gli appare il termine di un’ermeneutica pratica in cui chi filosofa può riconoscere un’assimilazione autentica della fede religiosa. Il filosofo definisce una prospettiva etica aperta al principio della libertà.

Quanto di valido si dà nella vita delle Chiese concerne, dove c’è, la dimensione pratica della fede. La figura del pastore d’anime incarna più l’éthos che la dottrina, più l’agápe che la conoscenza.

Quindi la prospettiva jaspersiana si delinea come una teologia vissuta, fatta di praxis pietatis più che di ricerca filologico-esegetica, di testimonianza di vita più che di sicurezze dogmatiche. Suo compito è di rendere presente l’eterno nel tempo richiamando gli uomini, nella quotidiana condivisione di significati, alla loro destinazione trascendente. Il pastore d’anime, nel suo essere definito da un vissuto etico-ermeneutico più che da ruoli istituzionali-gerarchici, finisce per essere il richiamo ad una dimensione, ad un imperativo, ad un compito, presenti in ciascun singolo: assimilare la tradizione religiosa in cui si è nati rinnovandola in esperienza viva ed efficace hic et nunc, rendere parlante la fede biblica nella serietà e nell’impegno nascente dell’esistenza, così da evocare nell’uomo delle società secolarizzate l’attenzione all’eterno. In questo modo si manifesta il richiamo all’impegno dell’esistenza di fronte alla Trascendenza.

Nella prospettiva indicata, rimane comunque indubitabile che le idee di tempio, di culto, di liturgia, di sacramento, non sono affatto dissolte: l’ecclesia, insieme alla prassi etico-religiosa che le è peculiare, è chiamata a restare quale luogo insostituibile di un’assimilazione autentica della fede biblica, ma chiede di essere ripensata alla luce del principio dell’ecumenicità della vita religiosa. È il senso complessivo dell’istituzionalità delle Chiese storiche, dunque, che va rivisitato, nell’orizzonte della perfettibilità, che kantianamente dall’idea di ecclesía noúmenon, perennemente scaturisce. L’immagine di Chiesa proposta da Jaspers si configura come una comunità aperta, di una società di liberi dove i singoli si trovano uniti, più che nel segno di un vincolo sacramentale oggettivo e soprannaturalmente fondato, nel reciproco ascolto della voce dello Spirito, nella custodia e nel libero rivivere in sé la fede ereditata dal passato. In essa rimane centrale la figura del pastore d’anime, chiamata ad operare nella condivisione quotidiana dell’umano bisogno di Trascendenza.

Bibliografia

R. Celada Ballanti, Filosofia e religione. Studi su Karl Jaspers, Le Lettere, Firenze 2012.

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K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, tr. it. di Filippo Costa, Longanesi, Milano 1970.

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G. Penzo, Dialettica e fede in Karl Jaspers, Pàtron, Bologna 1981.

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