L’ONU, il circo delle meraviglie. Come la Società delle Nazioni non ha raggiunto i propri obiettivi, così l’ONU ha centrato ben pochi traguardi da quando è stata creata. Di Roberto Roggero.

Un testo emblematico.

Società delle Nazioni, un’espressione altisonante, che i libri di testo definiscono ancora “Organizzazione Internazionale nata dalle clausole del Trattato di Versailles, che mise fine alla prima guerra mondiale. I suoi parametri includevano, fra diversi altri, il disarmo delle potenze sconfitte, l’equiparazione della potenza marittima dei vincitori, la prevenzione di nuovi conflitti attraverso patti di assistenza e sicurezza collettiva, la soluzione di dispute territoriali, sociali, diplomatiche o politiche tramite negoziati, una implementazione della democrazia e un impulso alle condizioni sociali a livello mondiale. Di fatto l’organismo, ufficializzato il 10 gennaio 1920, ha cessato di esistere il 20 aprile 1946, e dalle sue ceneri sorse l’Organizzazione delle Nazioni Unite. 

Le analogie fra la situazione di allora, quella del secondo dopoguerra e quella attuale, sono sorprendenti. 

Dal punto di vista sociale, l’idea di una comunità pacifica internazionale risale alla fine del ‘700, teorizzato da Emmanuel Kant (1724-1804) in rappresentanza di una Lega di Nazioni che controllasse i conflitti e promuovesse la pace, non certo come “governo globale”, ma insieme di Stati liberi, con libera circolazione di merci e persone, basata sulla cooperazione reciproca. 

Il concetto di blocchi ideologicamente contrapposti, e quindi di sicurezza collettiva e di Europa, si sviluppò non molto dopo, in seguito alle guerre napoleoniche, con il tentativo di mantenere lo status di pacificazione ed evitare nuovi conflitti. I primi esperimenti di Diritto Internazionale in senso moderno, con le prime Convenzioni di Ginevra e dell’Aja, si ebbero fra il 1899 e il 1907, sulla corretta conduzione di una guerra e relative soluzioni a controversie territoriali. 

Secondo diversi storici, fra cui William Harbaugh e Ronald Powaski, fu il 26° presidente americano Theodore Roosevelt (1858-1919) a chiedere la formazione di un Comitato di membri rappresentati di Stati. Premio Nobel per la Pace 1906 per la mediazione nella guerra russo-giapponese, nonostante fosse accanito militarista, alla consegna del riconoscimento rese ufficiale l’idea di una Lega delle Nazioni. 

A sua volta, la Società delle Nazioni non fu però un’idea originale. Lo statuto di base era quello della IPU, Unione Interparlamentare creata da Frederic Passy (1822-1912) e William Randall Cremer (1828-1908) nel 1889, per altro ancora esistente come organismo internazionale che analizza l’azione di vari legislatori nel mondo. 

Nel 1914 la IPU era formata da 1/3 di membri dei parlamenti dei 24 Paesi membri e fra i suoi compiti vi era la ricerca di soluzione a controversie internazionali con ogni mezzo pacifico; l’organizzazione di conferenze annuali per discutere perfezionamenti e sviluppi, grazie anche ad arbitrati condivisi, l’elezione di un Consiglio guidato da un presidente e una Assemblea di tutti i partecipanti. 

Le due guerre mondiali 

I progetti furono però bloccati dallo scoppio della prima guerra mondiale, proprio mentre il politologo inglese Lowers Dickinson (1862-1932) coniava nel 1914 il termine “Società delle Nazioni” e insieme Lord Julian Sorell Huxley di Bryce (1887-1975) fondò il Gruppo Bryce, appunto, per la pace internazionale, di ispirazione liberale progressista. Una Lega della Pace come organizzazione per l’arbitrato e la conciliazione, che andasse oltre la diplomazia segreta, a causa della quale si erano invece scatenati i peggiori conflitti della storia. Le “Proposte” del Bryce Group furono ampiamente diffuse, sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, dove ebbero una profonda influenza sul nascente movimento internazionale. 

Da non sottovalutare, inoltre, la mobilitazione delle donne, all’inizio del XX secolo. In piena guerra, nacque il Comitato per la Pace guidato dalla energica Fanny Garrison Ward (1864-1944), che riuscì a unire le donne dei sindacati e delle organizzazioni femministe, fra cui Katerine Barrett, Carrie Chapman, Mary Beard, Lillian Wald, fino all’agosto 1914 con la parata attraverso la Fifth Avenue di Manhattan. 

Dal 9 al 10 gennaio 1915 si tenne a Washington DC, una conferenza dove i delegati chiesero la creazione di organismi internazionali con poteri amministrativi e legislativi per sviluppare una “Lega Permanente di nazioni neutrali” per la pace e il disarmo. 

A Versailles, l’assemblea prese a modello la cosiddetta “Proposta Hurst-Miller” e, dopo ulteriori discussioni, il 25 gennaio 1919 venne approvata la formazione della Société des Nations. Una Commissione Speciale presentò come statuto la Parte Ia dello stesso Trattato di Versailles, sottoscritto dalle 44 nazioni che avevano preso parte dalla guerra con la Triplice Intesa. 

Non è stato poi abbastanza evidenziato il fatto che, negli stessi giorni della Conferenza della Pace a Versailles, poco lontano, le delegate delle associazioni femminili avessero convocato una conferenza parallela, per fare pressioni e partecipare alle riunioni ufficiali. La conferenza “inter-alleata delle donne” chiedeva di presentare diversi suggerimenti ed emendamenti ai negoziati di pace, e di avere voce in capitolo per le clausole in cui erano menzionati donne e bambini. 

Alla Conferenza di pace di Zurigo, 17-19 maggio 1919, le donne del WILPF condannarono i termini del Trattato di Versailles sia per le misure punitive, sia per l’incapacità di prevedere la condanna della violenza e l’esclusione delle donne da vita civile e partecipazione politica. Dopo aver letto il Regolamento della Società delle Nazioni, Catherine Marshall, femminista britannica, evidenziò che le linee guida erano antidemocratiche, e furono modificate in base al suo suggerimento. 

Dalla nascita ufficiale, la Società delle Nazioni non ebbe successo, e il mondo precipitò nella spirale che portò alla seconda guerra mondiale. Nel 1945 le condizioni mutarono, cominciò l’era atomica, la Guerra Fredda, la creazione dei due blocchi, la Nato e il Patto di Varsavia. L’Organizzazione delle Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia avrebbero avuto lo stesso percorso, ricco di insuccessi sul campo e in diplomazia. 

Nel XXI secolo, a condizioni ancora mutate, dove i nuovi blocchi sono mondo arabo e Occidente, l’ONU, o quel che ne rimane, è poco più che una proprietà privata di un Consiglio di Sicurezza dove i cinque membri permanenti sono i principali produttori ed esportatori di armamenti del mondo, e dove si svolgono spettacoli degni del più grande circo itinerante del pianeta. Il tutto condito dalla periodica emissione di Risoluzioni che non hanno potere legale, né decisionale, né esecutivo, ma esclusivamente di “raccomandazione” secondo i canoni del diritto internazionale, puntualmente rigettate da un governo o un altro, collegato agli equilibri della finanza mondiale, e con l’utilizzo delle varie organizzazioni subordinate quali OSCE, UNESCO, FAO, WTO, UNICEF, UNRWA e altre. L’andamento dei mercati e le zone di crisi (con rifugiati, profughi, e quant’altro produce sul campo una guerra) sono i piatti della bilancia: se all’epoca si discuteva di Aland Islands, Slesia, Saar, Alsazia e Lorena, Albania, Repubbliche Baltiche, disfacimento dell’impero austro-ungarico e dell’impero turcomanno, oggi si parla di Medio Oriente, Centro e Sud America, Africa, Golfo Persico, Sud Caucaso, Saharawi, rotte marittime, debiti e crediti a oltre nove zeri, guerra e ricostruzione, virus e vaccino, e tutto il resto. E si parla ancora di restaurazione dell’impero turcomanno, come da evidenti dichiarazioni del presidente turco Erdogan in merito a zone di possesso marittimo nel Mediterraneo orientale, petrolio libico e fascia afro-mediterranea, Armenia e Nagorno-Karabakh, zone critiche fra Mar Caspio e Mar Nero, ovvero i noti giacimenti di gas naturale e relativi gasdotti. 

Alcuni conflitti, inoltre, come quello del Chako fra Bolivia e Paraguay (1932), o le rivalità fra Cina/Nord Corea, e Giappone/Sud Corea, o fra alcuni Paesi africani, non si sono risolte ancora oggi. 

Elaborate e costose sconfitte 

Organismi che, fin dalla loro prima azione ufficiale, sono dominati da obiettivi di maggiore respiro, da varie “Ragion di Stato”, fra i quali entrano anche Croce Rossa Internazionale, Opus Dei, Banca Vaticana, multinazionali farmaceutiche e industriali in genere, e molto altro. Per questo, i molti conflitti scoppiati dalla seconda metà del Novecento a oggi, non sono stati risolti e c’è da dubitare che lo saranno. Semplicemente perché non conviene. 

Allo stesso modo, non furono risolti i conflitti dell’epoca, come l’invasione giapponese della Manciuria, il conseguente voto di 40 Paesi che decisero il ritiro nipponico e l’imperatore che rigettò la mozione e uscì dalla Lega; l’invasione italiana dell’Etiopia, e Mussolini che ignorò deliberatamente le decisioni della Lega delle Nazioni e a sua volta ne uscì, seguito da altri governi; la questione che opponeva, da una parte Francia e Inghilterra e, dall’altra, Germania e Paesi allineati, circa la Cecoslovacchia: Hitler ignorò la Società delle Nazioni e occupò Praga. Uguali considerazioni per il Medio Oriente, la zona del Canale di Suez, il Golfo Persico e altre zone di crisi, rimaste tali anche oggi. Dal primo all’ultimo giorno della seconda guerra mondiale, gli uffici della Lega a Ginevra, nella neutralissima cassaforte svizzera, rimasero chiusi. 

Fu nel 1941 che si ebbe la proposta di creare l’ONU, con la Dichiarazione di San Giacomo del 12 giugno. Il successivo agosto, Franklin Roosevelt (32° presidente, 1882-1945) e Winston Churchill (1874-1965) firmarono l’Alleanza Atlantica, prologo alla sistemazione del mondo nella fase postbellica. Nel settembre ’41, a Londra, il Consiglio Interalleato di otto governi in esilio e sotto occupazione, più l’URSS, ratificarono e ufficializzarono i principi elaborati da Roosevelt e Churchill, che firmarono l’atto conclusivo alla Conferenza “Arcadia” nel dicembre ’41. Lo stesso Roosevelt ideò la dicitura “Nazioni Unite”, e Stalin approvò il progetto. Le quattro potenze vincitrici (USA, Gran Bretagna, URSS e Cina) firmarono poi la Dichiarazione delle Nazioni Unite il 1 dicembre 1942, seguiti da altri 22 rappresentanti. Il 1 marzo ’45 i Paesi membri erano 48 e, dal 21 settembre al 7 ottobre ’44, i delegati si incontrarono alla Conferenza di Dumbarton Oaks per gli atti conclusivi. Tante cerimonie, mentre il mondo era divorato dalla seconda guerra mondiale, e fino agli accordi di Yalta e alla suddivisione del mondo in sfere di influenza. L’ONU, pur proposta dagli stessi protagonisti della Conferenza di Yalta, non venne presa in considerazione, e i problemi geopolitici lasciati senza soluzione. 

Guerra Fredda ed ex Jugoslavia 

Sebbene il mandato principale delle Nazioni Unite fosse il mantenimento della pace, la divisione fra Stati Uniti e Unione Sovietica spesso paralizzava l’organizzazione, permettendole generalmente di intervenire solo in conflitti lontani, che non rientravano negli interessi dei due blocchi. Notevoli eccezioni furono una risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 7 luglio 1950, che autorizzava una coalizione guidata dagli Stati Uniti a respingere l’invasione nordcoreana della Corea del Sud, approvata in assenza dell’URSS; e la firma dell’accordo di armistizio della stessa crisi coreana, il 27 luglio 1953. 

Si parlava di una lunga lista di fallimenti. Nel periodo seguente all’avvio dei lavori, il primo, e ancora oggi costoso fallimento, è la questione palestinese, con l’approvazione della nascita dello Stato di Israele alla fine del novembre 1947. A seguire, la creazione del primo contingente di Caschi Blu per porre fine alla guerra di Suez e mettere in sicurezza la delicatissima zona in questione. Subito dopo, il mancato intervento all’invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS. 

Negli anni ’60 le emergenze umanitarie e politiche più pressanti si ebbero in Africa, dove i grandi Paesi industrializzati avevano posato le mire. Nel luglio 1960 fu formata la UNOC, contingente di Caschi Blu per il conflitto Congo-Katanga, in un’atmosfera che culminò con la morte dell’allora segretario generale Dag Hammarskjold in un misterioso incidente aereo, e la decisione del successore, U-Thant, di ufficializzare l’intervento armato in una di quelle che sarebbe stata fra le più lunghe missioni della storia ONU, insieme a quella per il ristabilimento delle condizioni di sicurezza per il referendum nel Sahara Occidentale. 

Con la decolonizzazione, i membri dell’organizzazione hanno visto un afflusso di nazioni recentemente indipendenti. Solo nel 1960, 17 nuovi stati si unirono alle Nazioni Unite, 16 dei quali dall’Africa. Il 25 ottobre 1971, con l’opposizione degli Stati Uniti, ma con il sostegno di molte nazioni del Terzo Mondo, alla Repubblica Popolare Cinese fu assegnato il seggio nel Consiglio di Sicurezza al posto della Repubblica Cinese che occupava Taiwan; il voto fu visto come segno del calo dell’influenza degli Stati Uniti nell’organizzazione. Le nazioni del Terzo Mondo, si erano organizzate nella coalizione Gruppo-77 sotto la guida dell’Algeria, divenuta per breve tempo una potenza dominante alle Nazioni Unite. Il 10 novembre 1975, un blocco comprendente l’URSS e le nazioni del Terzo Mondo approvò una Risoluzione, contro la strenua opposizione di Stati Uniti e Israele, che dichiarava il sionismo come razzismo; la Risoluzione fu poi abrogata il 16 dicembre 1991, subito dopo la fine della Guerra Fredda, mentre al Palazzo di Vetro si registravano anche i fallimenti per le situazioni in Medio Oriente, Vietnam e Kashmir. 

Dopo la Guerra Fredda, l’ONU ha avuto una sensibile espansione, assumendo più missioni in cinque anni di quante ne avesse nei quattro decenni precedenti, la maggior parte delle quali fallite o ancora senza una soluzione. 

Tra il 1988 e il 2000, il numero di Risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza è più che raddoppiato, e il bilancio per il mantenimento della pace è aumentato di oltre dieci volte. L’ONU ha negoziato la fine della guerra civile in Salvador, ha organizzato la missione di mantenimento della pace in Namibia, e ha supervisionato le elezioni democratiche nel Sud Africa post-apartheid e nella Cambogia post-Khmer. 

Dopo la fine della guerra fra Iran e Iraq, terminata senza una soluzione di fatto, nel 1991 l’ONU ha autorizzato una coalizione guidata dagli Stati Uniti che respingeva l’invasione irachena del Kuwait. Brian Urquhart, sottosegretario generale dal 1971 al 1985, in seguito descrisse le speranze suscitate da questi successi come una “falsa rinascita” per l’organizzazione. 

Durante la fase finale della Guerra Fredda e alla fine degli anni Novanta, l’ONU ha collezionato una rispettabile serie di accuse di cattiva gestione e soprattutto corruzione, ancora oggi attive e rinnovate, soprattutto dopo lo scandalo di alcuni programmi ufficiali, primo fra tutti “Oil for Food”, durante il mandato dei segretari Boutros Ghali, Ban Ki Moon e Kofi Annan, fra il 1992 e il 2006. 

Fra uno scandalo e l’altro, altre situazioni di crisi e altri fallimenti, l’indecisione e la confusione al Consiglio di Sicurezza, costò un genocidio in Rwanda, indicibili massacri in Somalia, una guerra con intervento Nato in Bosnia e nella ex-Jugoslavia che fu interpretato come “manifesto mondiale del ridicolo”. 

Uno scandalo planetario 

“Oil for Food” (alimenti/medicinali in cambio di petrolio) era il programma dell’ONU, fra il 1995 e il 2003. Promosso dall’allora presidente statunitense Bill Clinton aveva l’obiettivo di limitare il disagio in cui versava la popolazione civile irachena, date le sanzioni imposte all’Iraq di Saddam Hussein, con l’intento di ottenere la demilitarizzazione del Paese, durante la Prima Guerra del Golfo. 

Cinque mesi dopo l’invasione del Kuwait, iniziata il 2 agosto ‘90, il Consiglio di Sicurezza decise di adottare la Risoluzione-660, che identificava quest’azione come un atto di aggressione e intimava il ritiro delle truppe irachene. Come ripetute volte in passato, il documento ONU fu considerato ”chiffon de papier”, come le successive Risoluzioni 661 e 665, e la prosecuzione dell’embargo a causa del mancato rispetto delle misure di disarmo, costringendo Saddam Hussein ad accettare pesanti condizioni d’armistizio. Prima Bush senior, poi Bush junior, con la ben nota vicenda delle tanto propagandate e mai esistite armi di distruzione di massa, e il traffico di uranio in cui furono coinvolti i servizi segreti di mezzo mondo, compresi quelli italiani. 

Nel 1995, quattro anni dopo l’embargo, l’Iraq si trovava in una profonda crisi economica e sociale. La Risoluzione-986, relativa al programma “Oil for Food”, nacque in questo contesto, nel tentativo di calmierare la necessità di beni primari del Paese. Sebbene fosse già stato approvato, il programma mosse i primi passi solo nel dicembre dell’anno successivo, in seguito alla firma dell’Iraq che aderiva al MOU (Memorandum of Understanding), e regolava l’esportazione di petrolio iracheno fino a un massimo di 2 miliardi di dollari ogni sei mesi. Con il passare del tempo, il tetto massimo di queste esportazioni aumentò sempre di più, e l’ONU dovette adeguarsi: la Risoluzione-1330 del dicembre 2000 stabiliva che il 72% dei ricavi energetici fosse utilizzato per il programma umanitario, e il rimanente ripartito fra UNCC (25%), Nazioni Unite (2,2%) e UNMOVIC e IAEA (0,8%). 

Dal 1996, il tasso di malnutrizione si dimezzò nel centro e nel sud del Paese, e nelle regioni del nord e del Kurdistan (bambini sotto i cinque anni) il tasso di malnutrizione ebbe una diminuzione maggiore. 

Fra il marzo ‘97 e il marzo ‘03, vennero spediti in Iraq alimenti per un valore di circa 13 miliardi di dollari e medicine per 2 miliardi di dollari. Grazie a questo programma, l’ONU cercò di migliorare le condizioni socio-economiche del Paese, tutelando servizi pubblici e infrastrutture. 

Ma c’era il proverbiale rovescio della medaglia. L’allora segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ebbe diversi incontri con il presidente iracheno Saddam Hussein e, sebbene questo programma umanitario avesse raggiunto importanti obiettivi, non mancarono gli illeciti. Fu solo dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, che si ritenne di aver conseguito la prova dell’esistenza di uno schema corruttivo, che coinvolgeva funzionari dell’ONU e membri del governo iracheno. Nel gennaio del 2004, il quotidiano iracheno “Al-Mada” pubblicò una lista dove si dimostrava che, sia privati sia organizzazioni internazionali, avevano ricevuto tangenti di milioni di dollari grazie a “Oil for Food”. 

Si parlava di circa 2.000 società corrotte delle 4.500 che avevano avuto rapporti con l’Iraq all’interno del programma e a livello mondiale, il tutto corredato da una documentazione di oltre 15.000 pagine della Iraq National Oil Company, agenzia controllata dal Ministero del Petrolio di Baghdad. Fra le pagine, molti i nomi super-eccellenti: Marian Appeal Foundation di Londra per le forniture medico-sanitarie; ministero dell’Interno francese per la fornitura di personale medico; ministero degli Esteri indiano e…Regione Lombardia, il cui presidente era all’epoca Roberto Formigoni. Lo scandalo ha avuto quindi anche un filone italiano, nel quale è stato notevole il coinvolgimento della rete di Comunione e Liberazione e di uno dei suoi uomini di punta, l’ex presidente della Lombardia, in contatto diretto con Tareq Aziz, braccio destro di Saddam Hussein. Sarebbe stata proprio l’intercessione di Formigoni a far ottenere la fetta più ampia del petrolio iracheno (24,5 milioni di barili utilizzati) al nostro Paese, commercializzati attraverso due società vicine a Comunione e Liberazione e al suo “braccio imprenditoriale”, la Compagnia delle Opere, ovvero la Cogep della famiglia Catanese e la Nrg Oils di Alberto Olivi. 

Inoltre, i vertici di celebri marchi, fra i quali Volvo, Chrysler, Total, Vitol, Mastek, BNP-Paribas, tutti coinvolti per tangenti di miliardi di dollari. In un giro che faceva capo a persone o società che avevano la possibilità di ottenere contratti d’appalto per la vendita di petrolio attraverso “Oil for Food”. Questi contratti per la vendita di petrolio iracheno, una volta ottenuti, venivano rivenduti aggiungendo un sovrapprezzo da 0,15 a 0,50 dollari al barile. Infine, il rivenditore dava una percentuale delle vendite a Saddam Hussein, che reinvestiva in armamenti e rifornimenti. 

Che i vertici della stessa ONU fossero coinvolti, lo dimostra l’arresto del dirigente Yakovlev, al quale furono trovati conti bancari per oltre 1,5 milioni di dollari, derivanti da mediazioni non autorizzate o non ufficiali, per la vendita di oltre 80 milioni di dollari di petrolio iracheno. Dall’altra parte, la americana BayOil del magnate David Chalmers, accusato di avere elargito tangenti milionarie a Saddam Hussein, tramite una società fantasma italiana, la ItalTech. Lo scandalo si allargò a macchia d’olio in poco tempo, all’epoca dell’invasione dell’Iraq nel 2003, quando il programma venne chiuso, in seguito alle dichiarazioni rese al Wall Street Journal da Michael Soussan, giovane assistente dell’ufficio direttivo del programma “Oil for Food” e collegamento con oltre 2300 compagnie multinazionali, fra cui nomi i già citati grossi nomi come Mercedes, Texaco, ecc. 

Il danese Michael Soussan aveva solo 24 anni quando, abbandonando l’ipotesi di una carriera di investitore finanziario, fece domanda all’ONU per seguire le orme del padre diplomatico, diventando coordinatore di “Oil for Food”. Dopo la rivelazione, si è dato al giornalismo d’inchiesta e al reportage. 

Le indagini rivelarono che all’ONU molte cose rimangono non dette. “Oil for Food” era una buona idea inizialmente, secondo quanto ha dichiarato lo stesso Soussan, ma l’ONU aveva appoggiato le sanzioni e taciuto di fronte a una guerra, pronta a ribadire il proprio ruolo solo quando Saddam Hussein fosse stato eliminato. In quella guerra Saddam non fu eliminato, ma l’Iraq lasciato senza acqua potabile, senza elettricità, senza cibo, con ospedali dove si operava senza anestesia, perché importava tutto, tranne petrolio, i cui proventi andavano a Saddam e al suo governo. 

Il regime iracheno cercò di trarre profitto in qualsiasi modo da “Oil for Food”, con un giro di corruzione che si diramava in oltre duemila aziende e compagnie più o meno private, e fino a vertici come il futuro segretario di Stato, Condoleezza Rice e il vice-presidente Dick Cheney, allora fra i numeri uno della Texaco. La madre di tutti gli scandali e di tutte le tangenti. 

Dal rapporto voluto dal segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan (che nello scandalo vide coinvolto anche il figlio), si concluse che Saddam Hussein avesse depistato fondi per circa 2 miliardi di dollari per destinarli a tangenti e sovrapprezzi a favore di duemila delle circa 4.500 società di tutto il mondo che trafficarono con l’Iraq durante il programma. Non a caso, comunque, il presidente della Commissione di Indagine era Paul Volker, della US-Federal Reserve. 

Oltre ai già citati grossi nomi, fra gli altri spiccavano Siemens, Alfa-Eco, multinazionali cinesi, svizzere, russe, tedesche, francesi, malesi, leader politici e vertici che arrivavano fino a Cremlino, Eliseo, e in molte altre stanze importanti. 

Il rapporto Volcker pone un’inquietante domanda sul ruolo che importanti istituzioni bancarie e finanziarie di livello mondiale hanno avuto nel riciclaggio delle tangenti irachene. Nello scandalo sarebbe coinvolto anche padre Jean-Marie Benjamin, dal 1991 al 1994 assistente del segretario di Stato vaticano, cardinale Agostino Casaroli, amico dell’allora vice premier iracheno, Tareq Aziz e del petroliere svizzero Alain Bionda, che avrebbe utilizzato la sua amicizia con padre Benjamin per ottenere dal governo di Bagdad oltre due milioni di barili. In gioco anche molte altre compagnie-ombra che arrivano fino ai paradisi fiscali di Panama, Lussemburgo, Svizzera, canali da dove passa tutto. 

Sotto l’egida dell’ONU, vennero immessi sul mercato mondiale del petrolio più di 130 miliardi di dollari. Ufficialmente, circa 90 miliardi furono usati per bisogni umanitari, una parte per ricostruire i danni della guerra del Golfo, una parte per supportare le operazioni amministrative e operative dell’ONU, e per finanziare i costi del programma di demilitarizzazione. 

La Risoluzione-712 del settembre 1991 confermava che l’Iraq poteva vendere fino a 1,6 miliardi di dollari per finanziare “Oil-For-Food”, e nel dicembre ’97 arrivarono le prime spedizioni di materiali sanitari e alimentari. Circa il 60% dei 26 milioni di iracheni furono direttamente dipendenti dalle razioni del programma in quanto i bombardamenti della coalizione avevano distrutto gli impianti di produzione di energia elettrica e le strutture fognarie e di depurazione delle acque. Inoltre anni di sanzioni economiche avevano ridotto il reddito pro-capite di 4/5, raddoppiato la mortalità infantile, causato epidemie di tifo e colera, fatto crollare i livelli di alfabetizzazione, e triplicato il tasso di mortalità. Il Programma usava un sistema di garanzia: il petrolio esportato dall’Iraq era pagato dai beneficiari su un conto di garanzia della Banca BNP Paribas piuttosto che del governo iracheno. Il denaro veniva quindi ripartito per pagare le riparazioni al Kuwait e le operazioni in corso della coalizione e dell’ONU, la restante (e la maggior parte del profitto) era a disposizione del governo iracheno per l’acquisto dei prodotti concordati. 

Al governo iracheno infatti fu permesso di acquistare solo prodotti che non fossero sottoposti a embargo. Alcuni prodotti, come i generi alimentari grezzi, furono spediti immediatamente, ma le richieste per la maggior parte dei prodotti, incluse cose semplici come matite e acido folico, furono bloccate in processi di autorizzazione che si esaurivano in media in circa sei mesi. L’afflusso di medicinali fu agevolato dopo un’inchiesta condotta dal quotidiano britannico “The Indipendent”, il cui corrispondente mediorientale Robert Fisk in una serie di articoli del 1997 aveva rivelato il picco dei dati di mortalità infantile riconducibili all’utilizzo di uranio impoverito nella Prima Guerra del Golfo. Nel 1998 il diplomatico Denis Halliday, a capo del programma, si dimise contestando le sanzioni definendole genocide. Due anni dopo si dimise il suo sostituto, Hans von Sponeck per analoghi motivi. 

Dal 2000 il “Oil for Food” fu giudicato ad elevato livello di vulnerabilità a seguito di controlli interni alle Nazioni Unite. Fu però con l’invasione dell’Iraq del 2003 che si ritenne di aver conseguito la prova, per un ammontare di oltre 10 miliardi di dollari. 

La Forza Multinazionale di Occupazione dell’Iraq dedicò al problema parte del Rapporto Duelfer del settembre 2004 nel quale tra l’altro emersero cospicue vendite illegali di petrolio soprattutto a Giordania e Turchia, discusse al Congresso di Washington in diverse burrascose sedute. 

Fra intoppi, insabbiamenti, montature e altro ancora, il processo si è aperto solo nel 2013 a Parigi, e solo nel dicembre 2016 è arrivato il primo arresto: Trevor Flugge, ex presidente del Comitato per il grano australiano (AWB ltd) che trattava ordini per oltre 200 milioni di dollari direttamente con Saddam Hussein. Un processo che, come si può immaginare, è destinato a svelare meticolose macchinazioni, e a protrarsi chissà per quanto tempo, e chissà se alla fine avrà dei colpevoli, i quali nel frattempo saranno morti per cause naturali. 

Sul banco degli imputati, fra gli altri, l’ex ministro dell’Interno francese Charles Pasqua; il gruppo petrolifero Total con l’allora vicepresidente senior per il Medioriente, Christophe de Margerie, oggi amministratore delegato; ex diplomatici come l’ex ambasciatore francese all’ONU Jean-Bernard Merrimée. Per tutti l’accusa è corruzione e riciclaggio. 

“Oil for food” mobilitò qualcosa come 65 miliardi di dollari, tramite un apposito piano di scambi commerciali, e una rete di canali paralleli e attività di lobbying, che amministrava petrolio venduto con un sovrapprezzo che l’Iraq incassava attraverso società fittizie. BNP-Paribas ebbe l’incarico di banca di deposito direttamente dall’ONU dove affluivano gli enormi proventi, ridistribuiti in centinaia di società fittizie, delle quali oltre 120 italiane, ma la maggior parte con sede e agganci governativi in Russia e Francia. Iveco e New Holland del gruppo Fiat, Breda Energia e Progetto Europa & Global Spa, società di ingegneria civile. A tutte le società veniva chiesto un extra del 10% sul valore di ogni contratto, fatto passare come “after sale services fee” (servizi post-vendita), che doveva poi tornare a Saddam attraverso un conto in Giordania. 

 Inutili tentativi di riguadagnare prestigio 

All’inizio degli anni ’90, in seguito alla crisi e alla caduta dei regimi socialisti e del Blocco Orientale, scoppia la crisi dei Balcani. La Risoluzione-1244 autorizzò la Forza per il Kosovo a guida Nato a partire dal 1999, poi ci fu la missione ONU (1999-2006) in Sierra Leone, pilotata secondo gli interessi britannici nel territorio. L’invasione dell’Afghanistan nel 2001 è stata supervisionata dalla Nato ma senza voce in capitolo. Nel 2003, gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, nonostante non abbiano approvato una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, provocando nuovi interrogativi sull’efficacia e la necessità di una tale fallimentare organizzazione. 

Con l’ottavo segretario generale, Ban Ki-moon, le Nazioni Unite sono intervenute militarmente nel Darfur e nel Kivu (Repubblica Democratica del Congo) e hanno inviato osservatori e ispettori di armi chimiche nella guerra civile scoppiata nel 2011 in Siria. Risultato? Il Darfur è diventato sinonimo di massacro di massa, e la guerra in Siria è tutt’altro che terminata, per l’entrata in gioco dei “grandi attori” internazionali. 

Nel 2013, una revisione interna delle Nazioni Unite sulle battaglie della guerra civile dello Sri Lanka del 2009 ha concluso che l’organizzazione aveva subito un “annunciato fallimento sistemico”. Nel 2010, l’organizzazione ha subito la peggiore perdita di vite umane nella sua storia, quando oltre cento persone sono morte nel terremoto di Haiti, dove la situazione di emergenza è più attiva che mai, per non parlare del fallimento ottenuto in Libia, per la quale era stata promulgata la Risoluzione-1973 nel 2011. 

Quale sarà il ruolo dell’ONU per il XXI secolo? Di certo i primi vent’anni hanno deluso, nonostante l’altisonante proclama del Vertice del Millennio del 2000, il più grande insieme di capi di stato e ministri nella storia, culminato nell’adozione da parte di tutti gli Stati membri degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM), impegno a raggiungere lo sviluppo internazionale in aree come la riduzione della povertà, l’uguaglianza di genere e Salute. I progressi verso questi obiettivi, che dovevano essere raggiunti entro il 2015, sono stati in definitiva disomogenei. Il vertice mondiale del 2005 ha ribadito l’attenzione delle Nazioni Unite sulla promozione dello sviluppo, del mantenimento della pace, dei diritti umani e della sicurezza globale. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono stati lanciati nel 2015 per superare gli obiettivi di sviluppo del millennio. I risultati, al momento, sono deludenti. 

Nel tentativo di aumentare la trasparenza delle proprie azioni, nel 2016 l’ONU ha tenuto il suo primo dibattito pubblico tra i candidati alla carica di segretario generale. Il 1 gennaio 2017, il diplomatico portoghese António Guterres, in precedenza Alto Commissario per i rifugiati, è diventato il nono segretario generale. Guterres ha evidenziato diversi obiettivi chiave per la sua amministrazione, inclusa la diplomazia per prevenire i conflitti, sforzi più efficaci per il mantenimento della pace e razionalizzare l’organizzazione per essere più reattiva alle esigenze globali, con azione coordinata e globale di Assemblea Generale, Consiglio di Sicurezza, Consiglio Economico-Sociale (ECOSOC), Corte Internazionale di Giustizia e Segretariato, organi che, com’è noto, non si trovano tutti a New York ma fra Ginevra, L’Aja, Berna e Bruxelles, Vienna e fino a Nairobi. Sotto i sei organi deliberanti, si trova un’incredibile raccolta di entità e organizzazioni, alcune delle quali sono in realtà più antiche dell’ONU stessa e operano autonomia quasi completa. Questi includono agenzie specializzate, istituti di ricerca e formazione, programmi e fondi e altre entità delle Nazioni Unite come Food and Agriculture Organization e International Fund for Agricultural Development, Roma; International Civil Aviation Organization, Montreal; International Labour Organization, World Health Organization,     World Intellectual Property Organization, World Meteorological Organization e International Telecommunication Union Ginevra; International Maritime Organization a Londra; International Monetary Fund e World Bank Group a Washington; United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, Parigi; United Nations Industrial Development Organization a Vienna; World Tourism Organization a Madrid; Universal Postal Union a Berna. 

Altro tentativo di riacquistare prestigio, nonostante I correnti fallimenti, è stata la concessione del Premio Nobel per la Pace alla Forza Internazionale ONU nel 1988, parte della quale è ancora presente in Medio Oriente nella Missione UNTSO dal 1948. 

In molti casi, gli stati membri hanno mostrato riluttanza a raggiungere o far rispettare le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Si ritiene che i disaccordi sull’azione e l’intervento militare non siano riusciti a prevenire il genocidio del Bangladesh nel 1971, il genocidio in Cambogia negli anni ’70, e il genocidio ruandese nel 1994, e l’attuale sterminio della popolazione Rohinghia in Myanmar, per citare solo una delle zone di crisi. Allo stesso modo, l’inazione dell’ONU non ha evitato il massacro di Srebrenica nel 1995 o completato le operazioni di mantenimento della pace nel 1992-93 durante la guerra civile in Somalia, e accuse infamanti di stupri e violenze per i Caschi Blu in Congo, Haiti, Liberia, Sudan e DArfur, Burundi e Costa d’Avorio. Gli scienziati hanno citato le forze di pace delle Nazioni Unite del Nepal come la probabile fonte dell’epidemia di colera di Haiti del 2010-2013, che ha ucciso più di 8.000 persone, oltre alle vittime del terremoto del 2010. 

La regolamentazione degli armamenti è stata inclusa nella stesura della Carta delle Nazioni Unite nel 1945 ed è stata concepita come un modo per limitare l’uso delle risorse umane ed economiche per la loro creazione. Ed è questo un altro punto dolente, con il Consiglio di Sicurezza nel quale, come già evidenziato, i cinque membri permanenti sono i primi produttori ed esportatori di armamenti del mondo. Le Nazioni Unite sono state coinvolte nei trattati sulla limitazione delle armi, come il Trattato sullo spazio extra-atmosferico (1967), non proliferazione delle armi nucleari (1968), controllo delle armi sui fondali marini (1971), Convenzione sulle armi biologiche (1972), Convenzione sulle armi chimiche (1992) e Trattato di Ottawa (1997), che vieta le mine terrestri. Per la cronaca, una delle fasce di terra più minate del mondo è quella che separa territorio annesso dal Regno del Marocco nel Sahara Occidentale, e territorio assegnato alla comunità Saharawi. 

Nel 1948, l’Assemblea Generale adottò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, redatta da un comitato guidato dalla diplomatica e attivista americana Eleanor Roosevelt, e che includeva l’avvocato francese René Cassin. Il documento proclamava i diritti civili, politici ed economici fondamentali comuni a tutti gli esseri umani, sebbene la sua efficacia verso il raggiungimento di questi fini sia stata contestata sin dalla sua redazione. 

Nonostante la Convenzione sulla Eliminazione della Discriminazione sulla Donna (1979), i diritti delle donne sono continuamente lesi in diversi Paesi; nonostante la Convenzione Mondiale sull’Infanzia (1989) decine di migliaia di minori sono continuamente sfruttati, fino ai casi limite dei bambini-soldato e dei baby-corrieri della droga e peggio ancora. I diritti umani sono ancora calpestati in molti Paesi. 

Nonostante le intenzioni di cooperazione internazionale, assistiamo a una continua guerra economica, sociale e umanitaria, né sono state risolte le questioni di ambiente e sviluppo sostenibile o risposta organizzata a eventuali fenomeni pandemici (e l’Italia ne sa qualcosa…). 

Inoltre, da considerare che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sono agenzie e osservatori indipendenti e specializzati nel quadro delle Nazioni Unite, secondo un accordo del 1947. Inizialmente furono formati separatamente dalle Nazioni Unite attraverso l’accordo Bretton-Woods nel 1944, con la Banca Mondiale che fornisce prestiti per lo sviluppo internazionale, mentre il FMI promuove la cooperazione economica internazionale e concede “prestiti di emergenza” ai Paesi indebitati. Tutto questo sulla carta, perché sul campo le cose vanno diversamente. Altrettanto problematici i rapporti fra istituzioni internazionali ONU-OMS-Croce Rossa-Mezzaluna Rossa per il coordinamento dei soccorsi di emergenza. Con un budget di oltre 3 miliardi di dollari per il 2020, in finanziamenti pubblici e privati, e un’ampia quota della spesa destinata alla missione principale di pace e sicurezza. Intanto, al Palazzo di Vetro si vagliano procedure alternative per l’aumento dei membri del Consiglio di Sicurezza, per l’elezione del segretario generale, e per una Assemblea Parlamentare. 

La Questione Palestinese è un altro punto dolente della storia ONU, come lo è l’attuale conflitto in atto fra Turchia e Azerbaijan da una parte, Artsakh e Armenia dall’altra. Critici come il diplomatico israeliano Dore Gold, lo studioso britannico Robert Wistrich, il celebre legale americano Alan Dershowitz, il politico australiano Mark Dreyfus, considerano eccessivo l’attenzione delle Nazioni Unite al trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Nel settembre 2015, Faisal bin Hassan Trad dell’Arabia Saudita è stato eletto presidente del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite che nomina esperti indipendenti, una mossa criticata dai gruppi per i diritti umani. Critiche anche per la gestione dell’Affare Somalia, dove le Nazioni Unite hanno perso almeno tre opportunità per prevenire gravi tragedie umane pur cercando di fornire assistenza umanitaria, e furono superate dalle ONG, la cui competenza e dedizione erano in netto contrasto con la cautela e l’inefficienza burocratica dell’ONU. 

E altri tentativi di recuperare prestigio si sono avuti con l’attività extrascolastica Model United Nations (MUN), simulazione dell’attività delle Nazioni Unite basata sull’agenda e seguendo la procedura ONU, frequentato da studenti delle scuole superiori e universitari che organizzano conferenze per simulare i vari Comitati, funestate da episodi come la ex colonia portoghese Timor Est nel 1991 e 1999, e fino al 2010, con il tentato golpe, il grave fermento del presidente José Ramos Horta e l’uccisione del leader ribelle Alfredo Reinado. 

Missione attiva, situazione non risolta 

Quante sono, quanto costano ogni anno, quali sono i risultati raggiunti dalle numerose missioni ONU ancora oggi attive in molti Paesi? 

Nel continente africano, sono le seguenti: nel 1991 è iniziata la MINURSO, UN for Referendum in Western Sahara. Il risultato odierno è stato un pericoloso recente episodio fra militanti del Fronte Polisario e truppe marocchine, che avrebbe potuto generare una crisi e una riapertura delle ostilità. Le condizioni per l’applicazione di un referendum sono più che mai illusorie. 

Dal 2003 è in corso la UNIMIL (UN-Mission in Liberia), per coordinare l disarmo e la riappacificazione delle diverse parti tribali in lotta, ma ancora non si è giunti a una definitiva condizione di pace. 

Dal 2004, la UNOCI (UN-Operation in Cote d’Ivoire) non ha saputo garantire condizioni ideali per una ripresa economica del Paese africano, dopo una sanguinosa guerra civile. 

Dal 2007 è in corso UNAMID (UN-African Mission in Darfur), in uno dei luoghi di crisi più inquietanti del mondo, teatro di genocidi e massacri di proporzioni immani. 

Dal 2010 è in svolgimento la MONUSCO (UN-Organization Stabilization Mission in Democratic Republic of Congo), per la risoluzione della guerra in Kivu, altro scenario dai risvolti drammatici, in Centro Africa. 

Nel 2011 è stata avviata la UNISFA (UN-Interim Seciruty for Abyei), nel territorio del Sud Sudan per porre un freno al conflitto fra Sudan e Fronte Interno di Opposizione (SPLM). Nello stesso anno ha preso il via la UNMISS (UN-Mission in Republic of South Sudan per l’intervento nella seconda guerra civile. 

Dal 2013 è in corso la MINUSMA (UN-Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali); e dal 2014 la MINUSCA (UN-Multidimensional Integrated Stabilization in Central African Republic, in occasione della seconda guerra civile. 

Nel continente americano, dal 2004 è in atto la MINUSTAH (UN-Stabilization Mission in Haiti), con risultati decisamente poco apprezzabili, in uno dei Paesi che continua ad essere uno dei più poveri del mondo. 

In Asia, dal 1949 è in svolgimento la UNMOGIP (UN-Military Observer Group in India and Pakistan), e la frontiera fra le due potenze nucleari continua ad essere soggetta a scontri armati che aumentano la tensione lungo tutta la fascia di sicurezza del Kashmir, alternativamente violata. 

Nella giurisdizione geopolitica europea, dal 1964 si svolge poi la UNFICYP, operazione di Peacekeeping a Cipro per la rivalità greco-turca; poi la UNMINK in Kosovo e Serbia dal 1999. 

In Medio Oriente, dal 1948 vi sono le missioni UNTSO, UNDOF (1974), UNIFIL (1978) monitoraggio ONU fra Israele, Libano e Siria, conseguenze di conflitti dallo Yom-Kippur, alla guerra Libano-Israele del 2006, all’attuale in Siria, sullo sfondo del conflitto israelo-palestinese. Il tutto da leggere come situazione ONU ancora non risolta, volutamente non risolta, come le carestie in corso in diversi Paesi africani, e non ultima, la guerra nello Yemen, considerato affare privato da USA, Arabia Saudita, Emirati, Iran, Houthi e governo legittimo, dove insomma, la mediazione delle Nazioni Unite ha collezionato una rispettabile serie di fallimenti. 

Altre operazioni internazionali ONU-Nato sono i pattugliamenti aerei e navali in Bosnia-Erzegovina, Afghanistan, Mare Mediterraneo, presenza in Iraq, Kosovo e Macedonia, Serbia, Lettonia e Lituania. 

Fra ONU e Unione Europea, inoltre, sono state allestite, e tutt’ora in corso, missioni in Oceano Indiano-Somalia e Mali, Repubblica Centrafricana, Kosovo, Iraq, Mediterraneo, per il controllo dei flussi di emigranti. 

Altre operazioni sono in corso in Egitto, Iraq, Libano, Malta, Emirati Arabi, Libia, Niger, Gibuti e Antartide. 

Sette delle quattordici operazioni di Peacekeeping delle Nazioni Unite nel mondo sono in Africa, molto eterogenee per impegno, dimensioni, budget, finalità e truppe impiegate. Queste missioni, per mandato del Consiglio di Sicurezza, devono seguire tre principi: imparzialità, consenso delle parti coinvolte e uso della violenza unicamente per autodifesa o a difesa del proprio mandato. In queste, il coinvolgimento, o meno, delle grandi potenze non appare casuale. 

In Africa Occidentale sono presenti due missioni molto differenti fra loro, (MINURSO e MINUSMA). Una ha come obiettivo di garantire lo svolgimento di un regolare referendum nei territori del Sahara Occidentale, tutt’oggi contesi fra Algeria, Marocco e popolazione Saharawi, che vive unicamente di aiuti umanitari nel territorio desertico di Tindouf, nel Sahara algerino (circa mezzo milione di persone, di cui 300 militari o ex militari. Tra i quattro stati che forniscono il maggior numero membri, 25 militari egiziani e 16 russi. 

La missione in Mali, dal 2013, cioè poco dopo l’operazione militare francese Serval, che frenò l’avanzata dei Tuareg e altri gruppi armati verso Bamako, nonostante la collaborazione con l’operazione Barkhane (ex Serval) e il G5 del Sahel, non ha garantito alcuna stabilità. E nonostante un budget annuo superiore al miliardo di dollari con l’impiego di un contingente di 15.000 militari. Gli Stati che supportano la missione sono interessati a contenere la crisi (Burkina Faso, Chad, Niger, Nigeria, Senegal). Vi sono poi militari tedeschi e cinesi, francesi e anche italiani. 

Molto simili fra loro, e altrettanto inefficaci, le missioni ONU in Africa Centrale. La prima e per la stabilizzazione della Repubblica Centrafricana, in atto dal 2014, in seguito allo scoppio della guerra civile. Malgrado i numerosi accordi di pace firmati tra le parti, scontri e violenze cono quotidiani. La prima missione ha carattere quasi esclusivamente “regionale”, poiché le truppe provengono da Camerun, Egitto, Rwanda, Zambia e Senegal. La seconda missione attiva dal 2010 in Congo, coinvolto nel genocidio del Rwanda del ’94 e da guerre intestine fra il ’98 e il 2003, con oltre 5 milioni di morti, non ha a sua volta definito alcuna condizione di sicurezza. Sono presenti oltre 18.000 tra militari e personale di polizia da Pakistan, India, Marocco e Balgladesh, ma vi sono altre migliaia di combattenti che fanno capo a milizie private e tribali, fra epidemie, carestie, sfruttamento del sottosuolo (diamanti, petrolio, coltan del Nord Kivu). Nel Corno d’Africa sono attive tre missioni di peacekeeping, due in Sudan e una nel Sud Sudan. L’UNAMID ha inizio nel 2007, in seguito al genocidio del Darfur (2003), e coopera con l’Unione Africana. Affianca la protezione dei civili, con circa 20.000 uomini. Rwanda ed Etiopia ricoprono un ruolo centrale per numero di truppe e supporto logistico. 

Dopo la nascita del Sud Sudan, nel 2011, l’ONU ha attivato due missioni di peacekeeping nella regione: UNMISS e UNISFA. La prima nel 2011 nel Sud Sudan, piombato in una sanguinosa guerra civile, fra signori della guerra e strumentalizzazione geopolitica. Come nel caso dell’UNAMID, a prestare il maggior contributo militare sono Etiopia e Rwanda. Nel giugno 2011, le Nazioni Unite hanno predisposto l’avvio della seconda missione, che consta unicamente di truppe etiopi (oltre 4.000 militari). L’Etiopia, da un lato è direttamente interessata a stabilizzare uno Stato confinante e dall’altro, cerca di imporsi come punto di riferimento nella regione. 

Per finire alla crisi in atto fra Azerbaijan/Turchia, Nagorno Karabakh e Armenia, l’autorità e quindi la credibilità del Gruppo Minsk-OSCE rispetto all’efficacia della mediazione diretta condotta da parte degli stessi Paesi componenti. E di certo la rivalità fra Armenia e Azerbaijan nella disputa sulla piccola Repubblica Dell’Artsakh, con procura da parte di Turchia, Russia, Iran, e altri attori, risale a tempi non certo recenti. Si sono combattute diverse guerre, nel Sud Caucaso, territorio pur geograficamente poco ospitale, dove si sono sfidate le forze imperiali e nazionaliste, fin dal 1905, e attraverso le battaglie fra Wehrmacht e Armata Rossa fino a forze russe e movimenti indipendentisti dopo il crollo dell’Unione Sovietica. 

Senza scendere nei particolari storici e geopolitici, e nei meandri insondabili dei costi a livello finanziario, fra scontri armati, cessate-il-fuoco e migrazioni, ciò che dovrebbe interessare l’ONU è il mantenimento degli accordi di pace, proposti dallo stesso Gruppo OSCE-Minsk, e costantemente disattesi fin dal 2009 (Principi di Madrid). Una continua altalena fra le forze armate armene e azere, dall’Accordo di Helsinki (1975), al Protocollo di Bishkek, valido dal maggio 1994 al marzo 2016, quando furono riportate oltre settemila violazioni e la morte di diversi soldai da entrambe le parti e avvenne la più massiccia violazione fino al recente conflitto del 2020, fortemente sostenuto dalla Turchia di Erdogan, secondo un vero e proprio piano di restaurazione dell’impero turcomanno, trasposto nel mondo globale del 21° Secolo. 

Conclusioni 

In settant’anni le Nazioni Unite hanno operato in 71 missioni che hanno lasciato sul campo oltre tremila soldati. Le missioni non sono state sempre uguali, perché peacekeeping che conosciamo è infatti relativamente recente.Fino al 1988 le Nazioni Unite hanno schierato solo 14 volte le forze di pace. Durante la Guerra Fredda, infatti, Stati Uniti e Unione Sovietica si sono spesso bloccati a vicenda nel Consiglio di Sicurezza.Di fatto quindi è nel 1992, con il mandato del segretario generale Boutros Boutros-Ghali, che i Caschi Blu hanno iniziato ad assumere incarichi più complessi.

Con la fine della Guerra fredda il loro ruolo è cambiato passando da sorveglianti di pace, a impositori di pace. Un esempio su tutti la Somalia del 1992, quando i soldati statunitensi e delle Nazioni Unite subirono pesanti perdite contro i ribelli di Aidid. 

Secondo molti, le missioni hanno dimostrato di essere scarsamente efficaci. Le motivazioni sono da ricercarsi nella scarsità di informazioni che la stessa ONU ha del Paese in cui va ad operare, lo scadente equipaggiamento, mezzi poco adeguati e la bassa motivazione dei militari impegnati. 

La maggioranza dei soldati proviene infatti da Paesi africani che li invia principalmente per un ritorno finanziario.  Gli Stati europei spesso decidono di non partecipare alle missioni in Africa, ad eccezione di quella in Mali che si è trasformata in un’operazione antiterrorismo e dove sono infatti coinvolte truppe europee. 

Il Segretario generale, Antonio Guterres, sta valutando una serie di ipotesi di riforma delle missioni. Una delle sue proposte è quella di creare piccole squadre in grado di intervenire nella fase iniziale di un conflitto. In questo modo si ridurrebbero notevolmente i costi, anche se in molti casi potrebbe essere difficile eliminare la presenza militare. L’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, nel marzo 2018 ha sollecitato i membri a incrementare la propria quota di finanziamento per il Dipartimento delle Operazioni di Pace (DPKO). Gli Stati Uniti di Trump, infatti, hanno in più occasioni dichiarato non si faranno più carico di coprire oltre il 25% dei costi delle missioni di peacekeeping. Nel 2018 Washington copriva il 28,5% dei 7,3 miliardi di dollari stanziati a bilancio per le operazioni. 

I Paesi che contribuiscono maggiormente alla spesa sono: Stati Uniti, Cina, seguita da Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Russia, Italia, Canada e Spagna. 

Alla base delle operazioni sta l’articolo 39 della Carta Onu, ossia il rilevamento di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione, per il quale l’organo deputato alla sicurezza internazionale ritenga non soddisfacenti le misure previste dall’Articolo 41 (come l’interruzione dei rapporti diplomatici o il blocco economico totale), ma ritiene opportuno agire con la forza. L’ultimo Dossier ONU, aspettando la riforma, risale al luglio 2018. 

Fra costi di mantenimento della struttura ONU, costi delle inutili missioni del passato (scandali compresi) e di quelle ancora in corso, probabilmente si potrebbe risolvere il debito di non pochi Paesi cosiddetti sottosviluppati, e risolvere molte questioni di emergenza umanitaria, anziché permettere che vengano usati come merce di scambio o baratto, con la benedizione della Organizzazione delle Nazioni Unite. 

 Bibliografia 

“Genocide: a Reference Handbook” – Howard Ball, 2011; 

“Soldiers of Diplomacy: United Nations, Peacekeeping, and New World Order”, J. Coulon, 1998; 

“An Insider’s Guide to the UN” – Linda Fasulo, 2004; 

“The A to Z of the United Nations” – Jacques Fomerand, 2009; 

“Tower of Babble: How the United Nations Has Fueled Global Chaos” – Dore Gold, 2004; 

“Act of Creation: The Founding of the United Nations: A Story of Super Powers, Secret Agents, Wartime Allies and Enemies, and Their Quest for a Peaceful World” – Stephen Schlesinger, 2003; 

“The Oxford Handbook on the United Nations” – Robert Sherwood, 1948; 

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