Il “Manifesto della razza” e il ‘coinvolgimento’ di Giovanni Gentile e Giuseppe Bottai. Di Francesco Cappellani.

Giuseppe Bottai.

Giuseppe Bottai e Giovanni Gentile furono sicuramente i due intellettuali di maggiore spessore e prestigio organici al fascismo almeno fino alla fine della guerra d’Etiopia nel 1936. Ambedue, in modo diverso, tentarono di dare un’ossatura ideologica al regime ed una consistenza dottrinaria che potesse coinvolgere positivamente e costruttivamente il mondo culturale italiano dell’epoca.

Bottai contribuì in prima persona alla nascita del fascismo, partecipando alla marcia su Roma ed in seguito ricoprendo cariche di grande prestigio nel governo di Mussolini come ministro delle Corporazioni dal 1929 al 1932 e dell’Educazione Nazionale dal 1936 all’inizio del 1943. Era un uomo di grande cultura, amico di artisti e scrittori e letterato lui stesso, aveva fondato nel 1923 la rivista quindicinale “Critica Fascista” dove, anche se non apertamente, iniziava a svolgere un’azione critica dapprima nei confronti di ogni residua violenza del regime e poi, dopo il delitto Matteotti, ad aprire “alle libertà soppresse da Mussolini quella possibilità di confronto che, conducendo il regime verso posizioni più legalitarie e di dibattito interno, da un lato anticipava la democratica restituzione di esse (….), dall’altro attirava la considerazione di antifascisti di primo piano, quali Gobetti, Togliatti e Gramsci” (1).

Nel 1940 fonderà un altro quindicinale dedicato alle lettere ed alle arti, “Primato”,  con lo scopo di riportare al centro della vita politica nazionale tutti quegli intellettuali per i quali l’entrata in guerra a fianco della Germania aveva creato una disaffezione ed un disorientamento che andava in qualche modo recuperato. Su questa rivista scriveranno artisti e scrittori di grande valore come Gadda, Pintor, Pratolini, Guttuso e molti altri che, anche se consapevoli di collaborare ad un quindicinale nato da uno dei padri del fascismo (fondatore del fascio romano, capo-colonna della marcia su Roma, luogotenente generale della milizia e membro del Gran Consiglio), pure restando fedele al Duce, era critico sulla piega che aveva preso il fascismo dopo la proclamazione dell’impero e avversava il nazismo verso cui tragicamente Mussolini andava stringendo un’alleanza sempre più stretta e sottomessa.

Il 25 Luglio del 1943, in occasione del Gran Consiglio finalmente convocato, Bottai sarà tra i  diciannove firmatari dell’ordine del giorno che sancirà la fine del fascismo, se si esclude la penosa e tragica rinascita del partito, dopo la liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso ad opera delle SS di Otto Skorzeny, sotto il nome di Repubblica Sociale Italiana a Salò.

Quel Gran Consiglio non fu una congiura contro Mussolini, ma in qualche modo fu lo stesso regime che firmò la propria fine, “i diciannove non furono i precursori di una rivoluzione antifascista. Furono, e questo con piena dichiarata responsabilità di giudizio e di decisioni, senza preventivi accordi con ambienti dinastici e militari, i giustizieri della dittatura” (2).

Bottai fu condannato a morte nel grottesco processo di Verona insieme ad altri firmatari dell’ordine del giorno del Gran Consiglio, ma si nascose a Roma grazie alle sue conoscenze negli ambiti ecclesiastici, per poi arruolarsi nel 1944 nella legione straniera e combattere contro i tedeschi per la liberazione della Francia. Nel 1947 sarà assolto dalla condanna all’ergastolo inflittogli dal tribunale delle Repubblica Italiana per il suo passato fascista. Rientrato in patria nel 1948 morirà nel 1959 a 63 anni per un male inguaribile dopo avere ripreso in pieno la sua attività di scrittore e giornalista.

Come mai un uomo come Bottai, sempre più critico  nei confronti del decisionismo autoritario di Mussolini e del nazismo e delle sue dottrine, sia stato un accanito sostenitore delle leggi antiebraiche varate da Mussolini col “Manifesto della razza” del 1938 sulla falsariga del truculento antisemitismo hitleriano, imponendo, ad esempio, come responsabile dell’Educazione Nazionale,  a tutte le biblioteche scolastiche ed universitarie di abbonarsi alla rivista “La difesa della razza” diretta da Telesio Interlandi  affiancato poi da Giorgio Almirante, resta un punto da chiarire.

La figlia ne difende la scelta affermando che, proprio perché suo padre era antirazzista e contava tra l’altro molti amici ebrei tra cui Margherita Sarfatti, ex-amante e musa di Mussolini, capì che l’unico modo di “combattere, insieme all’antisemitismo hitleriano, le probabili nefandezze antiebraiche dei gerarchi filonazisti pronti a sostituirlo” (1) era assumere un atteggiamento di rigido antisemitismo che gli avrebbe permesso di mettere in opera, dall’interno del sistema, ogni sabotaggio possibile.

In altre parole le leggi per l’allontanamento dalla scuola degli scolari ebrei e di tutti i docenti ebrei sarebbero da considerare una manovra salva-ebrei “varate in un tragico frangente, per tener lontana la minaccia della macelleria razziale conseguente alla possibile invasione di Hitler. Con il risultato che uno dei gerarchi fascisti più avverso ad ogni genere di razzismo risulta invece esserne un tenace sostenitore…”(1).

Diversa è l’opinione dello storico Renzo De Felice che include Bottai nel novero di quei gerarchi che servilmente ed in modo acritico si adeguarono alle direttive del Duce, opinione, come abbiamo visto, fortemente contestata dalla figlia del gerarca che ne parla ovviamente per conoscenza diretta dei fatti e si appoggia al giudizio essenzialmente positivo di Giordano Bruno Guerri (3), dove Bottai appare un fascista critico, un dissidente interno al partito.

Lo storico Alessandro Campi è in disaccordo con l’interpretazione di Guerri perché, afferma: “Sappiamo oggi che Bottai era invece un fascista ortodosso, basti pensare al modo zelante con cui si batté all’epoca della legislazione razziale, basti pensare anche al suo disegno di una società, o alla carta della scuola del 1939, come tentativo di fascistizzare completamente l’ordinamento scolastico nazionale”(4).

In realtà, leggendo il suo diario, Bottai dimostra qualche esitazione, ad esempio il 2 settembre 1938 scrive “Presento al Consiglio dei Ministri il mio provvedimento per la difesa della razza nella Scuola Italiana. Con una tal quale commozione, non so se più per la “cacciata” dei docenti attuali o per la permanente interdizione della Scuola di Stato agli ebrei, anche alunni. Provvede bene ai suoi interessi materiali e spirituali uno Stato che rinunzia al tentativo, se non si vuol dire: la missione, di educare gli “allogeni” o gli stranieri, nati sul suo suolo, fisicamente, se non altro fisicamente partecipi, della vita del suo popolo? Solo col tempo si potrà rispondere alla domanda”, anche se il 6 ottobre 1938 nel resoconto del Gran Consiglio sulla questione degli ebrei, racconta “Io faccio la mia esposizione sulla scuola. Sostengo la necessità, dopo i provvedimenti già adottati, di tenere fermo. “Riammettendo gli ebrei nell’insegnamento – concludo – noi abbasseremmo il livello morale della scuola. Costoro ci odierebbero per averli cacciati, e ci disprezzerebbero per averli riammessi”. La mia tesi è accettata”.

Affermazione confermata nel Diario in pari data di Galeazzo Ciano: “Gran Consiglio. Problema degli ebrei. Parlano in favore Balbo, De Bono e Federzoni. Gli altri, contro. Soprattutto Bottai che mi sorprende per la sua intransigenza. Si oppone a qualsiasi attenuazione dei provvedimenti”.

Montanelli, che aveva visto e vissuto in prima persona l’involuzione filo nazista del fascismo, scrive in proposito: “il caso umano e politico più singolare, nella classe dirigente fascista, fu quello di Bottai: volta a volta fedelissimo e dissenziente, moderato e oltranzista, secondo gli itinerari suggeriti dalle sue teorizzazioni tormentate, stavolta si distinse, si fa per dire, nell’accanimento antiebraico” e conclude dicendo che “l’intellettuale del regime s’inchinava al fanatismo più odioso”.

Però Bottai, dopo i primi anni della seconda guerra mondiale, ma in realtà dopo la conquista dell’Etiopia a cui aveva partecipato combattendo al fronte valorosamente, come aveva fatto nella Grande Guerra e farà poi nel 1941 in Albania e nel 1944 in Germania, aveva progressivamente compreso la totale illiberalità e presunzione di Mussolini pur continuando a credere al fascismo come dottrina politica e di governo.

Con la riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 si staccò definitivamente dal Duce ed andò a combattere contro i nazisti per “espiare” perché, dirà “Io non peccai, ma lasciai peccare” e, in una lettera scritta al figlio Bruno nel 1944 “La verità avrebbe voluto altro da me: il rifiuto netto, duro, preciso. Non l’ho fatto. Perché?(….) Sono stato fedele alla parola data, anche quando bene vedevo che i patti, per cui era stata data, s’eran mutati sotto mano, adulterati, guastati. Errore, irreparabile errore” (2).

Diversa è la vicenda di Giovanni Gentile anche per la sua tragica conclusione. Mussolini conosceva i lavori di Gentile fin dal 1908 per cui, quando fu nominato nel 1922 capo del governo, assunse il filosofo come ministro in quanto il programma del “fascismo rivoluzionario” si poteva legare all’attualismo di Gentile in contrapposizione al positivismo ed al materialismo allora prevalenti.

Gentile scrisse per l’enciclopedia Treccani da lui voluta e gestita con grandissimo impegno e lungimiranza, la “Dottrina” del fascismo, che comparirà nel testo a firma di Mussolini, e sarà la base politica, filosofica e morale del sistema fascista e ne rappresenterà in buona misura il fondamento razionale.

Gentile si iscrisse al Partito Nazionale Fascista, PNF, nel 1923 e si adoperò per lo studio delle riforme costituzionali, per attuare una radicale riforma della scuola e, analogamente a Bottai, per suscitare il consenso degli intellettuali ad esempio col “Manifesto degli intellettuali Fascisti” del 1925, che segnerà però la fine dei suoi rapporti con Benedetto Croce da sempre antifascista.

Gentile rimase fedele al PNF che considerava come il compimento del Risorgimento, una prosecuzione della destra storica, degli insegnamenti di Mazzini, di Gioberti e degli eroi che avevano costruito una nazione unita ed indipendente. Dalla metà degli anni trenta la sua partecipazione alla politica attiva si era andata diradando a favore di una sempre più intensa attività di organizzazione culturale che comprendeva oltre all’insegnamento universitario, la direzione dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Roma e della Scuola Normale Superiore di Pisa, la direzione della monumentale enciclopedia Treccani e la presidenza dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura.

La sua linea politica culturale, aperta e liberale, cominciò ad irritare le frange più autoritarie ed intransigenti del regime che finirono per prevalere, relegando il peso politico di Gentile ad un livello marginale rispetto al potere centrale. Il 24 giugno 1943, quando oramai la guerra volgeva al peggio ed il fascismo si avviava al disfacimento, riapparve alla ribalta politica tenendo un famoso ed utopistico discorso in Campidoglio dal titolo “Discorso agli Italiani”, per esortare il popolo all’unità nazionale ed alla riscossa per difendere con orgoglio l’Italia risorgimentale, dimostrando amore per la patria e devozione  a Mussolini, ma forse anche per salvare un po’ di dignità davanti alla sconfitta oramai inevitabile.

Quando Mussolini fondò la Repubblica Sociale Italiana, RSI, offrì a Gentile la Presidenza dell’Accademia d’Italia che il filosofo accettò subito affermando che “non accettare sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita”.

Probabilmente Gentile, aderendo alla RSI, volle rimuovere la doppia accusa di tradimento che “gli cadde addosso da fascisti ed antifascisti: i primi gli imputarono debolezza e cedimento nei confronti dei “traditori” del 25 luglio, lo incolparono pesantemente di opportunismo e di furbizia (…); i secondi lo additarono come traditore del mondo della cultura e degli ideali di libertà e anch’essi come un opportunista pronto a tutto pur di mantenere potere ed influenza” (6).

Il fascismo di Gentile fu comunque convinto e granitico fino all’ultimo, per motivazioni maggiormente legate all’idea di una continuità ideale tra Risorgimento e Fascismo, che non all’impianto filosofico di tipo liberale ed idealistico che Gentile perseguiva.

Quando si cominciò a parlare anche in Italia di antisemitismo, Gentile rimase estraneo a questi atteggiamenti che erano assai lontani dalla mentalità  del filosofo data la sua formazione culturale e visione etica che erano, sostanzialmente “quelle di un liberale di stampo ottocentesco” (6).

Tuttavia Gentile non volle opporsi in prima persona al “Manifesto della Razza” per una mal riposta lealtà e fede nei confronti del fascismo. Si prodigò però per aiutare colleghi, allievi ed intellettuali ebrei che, dopo la promulgazione nel 1938 delle leggi razziali, si rivolsero a lui in cerca di supporto e protezione. Sicuramente Gentile si accorse che il fascismo aveva ampiamente travalicato e tradito quei valori di giustizia e libertà in cui il filosofo credeva, ma forse in lui, già anziano, deluso e colpito da importanti lutti familiari, finì per prevalere “un atavico principio di fedeltà. O, forse, gli venne a mancare la forza necessaria ad imprimere alla propria vita una svolta che, proprio perché totalmente rivoluzionaria, era troppo arduo compiere negli anni dell’avanzata maturità” (7).

Come in Bottai, ci fu in Gentile l’illusione di potere agire dall’interno del fascismo per poterlo cambiare ed avvicinarlo alla concezione politica che sperava di concretizzare; quando però realizzò che il “suo” fascismo si andava avvicinando al nazismo, al razzismo ed in seguito al conflitto mondiale e quindi non era più quello che aveva vagheggiato per vent’anni, non ebbe il coraggio né di usare la sua indubbia e riconosciuta autorevolezza per criticarlo, come aveva fatto invece Benedetto Croce, né tantomeno di sconfessarlo pubblicamente come Bottai dopo l’8 settembre del 1943.

Questa debolezza, se non tradimento dei propri ideali, Gentile finirà per pagarla fino in fondo con la morte alla quale andrà inevitabilmente incontro. Sarà assassinato sulla soglia di casa dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) fiorentini mentre rientrava, inerme e senza scorta, nella sua residenza di Firenze a Villa Montalto al Salviatino, il 15 aprile 1944.

Si concludeva così la parabola di un grande intellettuale, pedagogista, insegnante ed educatore, filosofo del neoidealismo ed animatore culturale che, come nota acutamente  Rosella Faraone, negli ultimi anni fu “costretto a diventare estraneo a se stesso ed ai principi cui più sinceramente era stato sempre legato, in nome di una fedeltà della quale l’unica ragion d’essere poteva ormai consistere solo in un malinteso senso dell’onore” (7).

1- Maria Grazia Bottai: “Giuseppe Bottai, mio padre”. Mursia, 2015

2- Giuseppe Bottai: “Diario 1935 – 1944”. BUR, 2006

3- Giordano Bruno Guerri: “Giuseppe Bottai, un fascista critico”. Feltrinelli, 1976

4- www.raistoria.rai.it/articoli/bottai-e-la-cultura-fascista/11499/default.aspx

5- Indro Montanelli e Mario Cervi: “L’Italia dell’Asse. 1936 – 10 giugno 1940”. Rizzoli, 1980

6- Alessandro Campi: “Giovanni Gentile e la RSI”. Quaderni Terziaria, Asefi editore, 2001

7- Rosella Faraone: “Giovanni Gentile e la “questione ebraica””. Rubbettino, 2003

Lascia il primo commento

Lascia un commento