San Tommaso e l’’errore’ di Maometto. Di Tito Arnaudi.

San Tommaso D'Aquino.

Tradotto dall’illustre padre Ceslao Pera, l’importante brano del Dottore comune, estratto dal Liber de Veritate catholicae fidei (I, 6, 41g) viene suggerito e consigliato agli ultrà ecumenici contemporanei (compreso papa Bergoglio) che si rifiutano di misurare le distanze abissali esistenti tra la Fede cristiana e il credo islamico.

Sostiene dunque San Tommaso: “Coloro i quali introdussero partiti basati su dottrine erronee, procedettero per una via contraria a quella seguita dal magistero divino. Lo dimostra Maometto, il quale attirò i popoli con la promessa di piaceri carnali, alla cui bramosia istigò la sensibilità inferiore. Egli diede precetti conformi alle promesse, accondiscendendo alla voluttà carnale; ai quali precetti è ovvio che si obbedisca da uomini carnali. Né produsse documenti di verità, se non quelli che facilmente possono essere conosciuti da ognuno mediocremente sapiente, per naturale ingegno; che anzi le verità che insegnò, le mescolò con molte favole e falsissime dottrine. Non usò segni, fatti soprannaturalmente, coi quali, solo, si rende testimonianza alla divina ispirazione, mentre l’operazione visibile, che non può essere se non divina, mostra il dottore di verità, come spiritualmente ispirato, ma disse di essere mandato in potenza di armi: segni questi che non mancano anche ai ladroni e ai tiranni. Né, da principio, gli credettero uomini sapienti nelle cose di Dio, esperimentati nelle cose divine e umane, bensì uomini bestiali del deserto, affatto ignoranti di ogni divina dottrina, per mezzo dei quali, con la violenza delle armi, costrinse gli altri alla sua legge. Nessun oracolo dei precedenti profeti, rappresentanti autentici del Magistero divino, gli rende testimonianza, che anzi deprava quasi tutti i documenti del Vecchio e del Nuovo Testamento, con favoloso racconto, come è evidente a chi dia una scorsa al Corano; perciò con astuto consiglio non lasciò leggere ai suoi seguaci i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento affinché, per mezzo loro, non fosse accusato di falsità. Così è evidente che coloro, i quali prestano fede alle sue parole, credono con  leggerezza – leviter credunt”.  

I giudizi di San Tommaso furono in seguito confermati da un dotto domenicano, Ricoldo da Montecroce (1243-1320) il quale si era recato in Oriente con l’intento di evangelizzare gli islamici[1].

Convinto della buona fede dei maomettani, il domenicano tentò di avviare con loro un dialogo costruttivo, ma fu tosto deluso dalla reazione acrimoniosa e feroce dei suoi interlocutori.

Fece allora un passo indietro ed approfondì lo studio della lingua araba e la conoscenza del Corano, giungendo presto a conclusioni opposte a quelle buoniste/ottimistenutrite all’inizio della sua infelice avventura ecumenica.

Ritornato a Firenze nel 1300, dopo dodici anni di tormentati viaggi nelle terre invase, che lo convinsero dell’impossibilità del dialogo con i maomettani, sviluppò le tesi dell’Aquinate e scrisse un fondamentale saggio sui Saraceni.

Nel testo sono elencate “Le quattro categorie di persone che aderiscono all’errore di Maometto: La prima  è quella di coloro che sono divenuti Saraceni in forza della spada, e che ora, riconoscendo il loro errore, ritornerebbero sui loro passi, se non avessero paura. La seconda è rappresentata da quelli che furono adescati da diavolo e finirono per credere vere le menzogne. La terza è quella di coloro che non vogliono abbandonare l’errore dei loro genitori, e dicono di attenersi ai loro padri, dai quali invece discordano per il fatto che al posto dell’idolatria hanno scelto la setta di Maometto. La quarta è quella di coloro che per il gran numero di donne concesse e per le altre licenze preferirono questo errore all’eternità del secolo futuro”

Di seguito Ricoldo elenca le cause dell’impossibilità del dialogo con i maomettani, ad esempio la favola che “Mosé e i Profeti hanno profetato su Maometto” ipotesi sostenuta dalla voce secondo la quale “i Giudei avrebbero corrotto le Leggi di Mosé e i Profeti, i Cristiani il Vangelo”. Informazione in certo modo smentita da Maometto, il quale, come si legge nel Corano, suggerì ai suo seguaci di chiedere consiglio a “coloro che prima di voi hanno letto il Libro…dunque al tempo di Maometto i libri dei Giudei e dei Cristiani non erano corrotti e non è possibile dire che lo furono in seguito”.

Contraddittori e ridicoli sono altresì numerosi passi del Corano, ad esempio quello in cui si afferma che i Giudei e i Cristiani si salveranno e di seguito “nessuno si salverà se non coloro che sono nella legge dei Saraceni”, e quello in cui si ingiunge ai fedeli di usare soltanto parole miti con gli infedeli e più avanti “ordina di uccidere e di depredare coloro che non credono”.

L’analisi del Corano dimostra infine l’incompatibilità di fede e ragione in corsa nei testi maomettani, un vulnusche ha giustificato la devastante teoria di Averroé intorno alle due verità, quella dei filosofi e quella dei religiosi.

Non è peraltro fondata l’opinione secondo cui i giudizi di San Tommaso e di Ricoldo, oggi sarebbero superati dalla teologia volante, con la funambolica opinione di Karl Rahner, squillante tra le righe infelici del Concilio Vaticano II ed indirizzata all’immaginaria folla dei cristiani anonimi. 

Ovviamente l’uomo non può conoscere il giudizio di Dio. L’esortazione dell’Alighieri: “non creda donna Berta e ser Martino per vedere un furare, altro offerere vederli dentro al consiglio divino; ché quel può surgere e quel può cadere (Par., XIII, 118 ss), segna il limite della conoscenza umana.

Se non che l’impossibilità e l’illiceità del giudizio ultimo non indeboliscono il giudizio teologico al quale ci obbliga il Decalogo: “Non avrai altro Dio all’infuori di me”.E la nozione maomettana di “dio” è totalmente, irreparabilmente al di fuori della Verità di Dio.

Negli anni Novanta, Fabrizio Gualco, uno studioso formatosi alla scuola di Pier Paolo Ottonello, dopo aver dimostrato che la Bibbia non è il Corano e il Dio biblico non è il Dio coranico”, ha citato un testo di Karol Wojtyla, che ha dissolto il dubbio suscitato dal bacio sul Corano “Chiunque, conoscendo l’Antico e il Nuovo Testamento, legga il Corano vede con chiarezza il processo  di  riduzione  della  Divina  Rivelazione  che  in  esso  è compiuto[2].

Benedetto XVI dal suo canto citò Emanuele II Paleologo, il quale, dopo aver accusato di ateismo il suo interlocutore maomettano[3], gli rinfacciò di non poter immaginare qualcosa di peggiore e assolutamente disumano, di ciò che egli [Maometto] disse, prescrivendo che, attraverso la spada,  si faccia largo quella fede che lui stesso proclamò. Credo che occorra esprimerlo nel modo più chiaro possibile. Di tre cose una ha costretto con la forza che avvenisse: o che si avvicinassero alla legge gli uomini di ogni angolo della terra, o che pagassero tributi e che svolgessero inoltre le attività degli schiavi o che, senza fare nessuna di queste due cose, venissero loro mozzate le teste con la spada, ed è questa, invero, la cosa più assurda. Perché? Dal momento che Dio non sa gioire delle stragi e il non agire secondo ragione è alieno da Dio. [4].

L’imperatore bizantino concluse, pertanto, che la dottrina islamica era in conflitto con la ragione oltre che con la misericordia Ciò che tu dici per poco non si spinge oltre l’irrazionalità”.

Di qui l’obiezione che l’imperatore rivolse al persiano La fede è frutto dell’anima e non del corpo, e a chi conduce verso la fede occorre una lingua virtuosa e un retto pensiero, non la violenza, non la minaccia, non l’azzannare e il terrorizzare”

Quando il Paleologo rivolse queste parole all’interlocutore islamico Bisanzio era sotto lo schiaffo dei turchi, che avevano ridotto l’Impero a poche lembi di terra. Tuttavia il fondato timore della feroce ritorsione turca non forzò l’imperatore a contorcersi nell’auto censura. Il testo del Paleologo, infatti, smentisce le stucchevoli leggende intorno alle contorsioni del pensiero bizantino e dimostra che i bizantinismiabitano altre regioni dello spirito.

Davanti all’incombente aggressività islamica, la Cristianità contemporanea ha elaborato una debole strategia, che è purtroppo condivisa e applaudita dai (numerosi e influenti) teologi ammaliati dal falso ecumenismo.

Ma Monsignor Rino Fisichella ha indicato la via da percorrere senza esitazioni: “Ragione e fede devono riprendere inevitabilmente il loro cammino comune. Benedetto XVI, a più riprese, ha ribadito che questa strada  non solo permette al cristianesimo di essere fecondo nella via dell’evangelizzazione, ma consente anche ai non credenti di accogliere il messaggio di Gesù Cristo come ipotesi carica di senso e decisiva per l’esistenza[5].

Anche Monsignor Brandmüller (in un articolo pubblicato sulla rivista “La fiaccola”) rivendicò la Verità storica, che il buonismo mediatico vorrebbe affondare nella melassa buonista. Mentre il Cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli, nonostante le persecuzioni e il martirio, in contrapposizione per molti aspetti al dominio romano –e comunque introducendo una netta separazione della sfera spirituale da quella politica– l’islam si è imposto con la forza di una dominazione politica”.

Da questo rilievo discende un giudizio sulla jihad islamica opposto alle opinioni diffuse dagli intellettuali militanti sotto la bandiera bianca L’uso del termine jihad nella tradizione islamica – compreso quello che ne viene fatto oggi – è sostanzialmente univoco e indica la guerra in nome di Dio per l’islam come un obbligo per i musulmani maschi adulti. Chi sostiene dunque che l’accezione di jihad come guerra santa costituisca una sorta di deviazione dalla vera tradizione islamica non dice la verità. La storia mostra purtroppo come la violenza abbia caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come sia stato lo stesso Maometto ad organizzare e condurre sistematicamente le razzie nei confronti delle tribù che non volevano convertirsi e accettare il suo dominio”.

Anche la rappresentazione dell’islam mite e tollerante nei confronti dei popoli del Libro (ebrei e cristiani), ai quali sarebbe consentito il tranquillo esercizio del culto, è risolutamente contestata da Brandmüller Nella realtà la situazione era molto meno idilliaca: cristiani ed ebrei potevano sopravvivere solo se accettavano il dominio politico musulmano e una situazione umiliante, aggravata dall’obbligo di pagare imposte sempre più pesanti”.

Quanto alla sharia, Brandmüller dimostra che il suo fondamento è la triplice ineguaglianza: tra uomo e donna, tra maomettano e non maomettano, tra libero e schiavo La differenza più forte tra cristianesimo e islamismo è a proposito di un tema centrale come la concezione dell’essere umano. Lo dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948, o l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che contravvenivano alla legge coranica, cioè tutte”

Il realistico ritratto dell’islam, il cui vertice speculativo è rappresentato dai tagliatori di teste, avvalora la tesi sulla scarsa consistenza del cosiddetto “islam moderato”. Tesi accreditata da un autorevole esponente dell’Istituto Affari Internazionali, Mario Arpino.

Nel volume Cento opinioni sulla pace e sulla guerra dopo l’11 settembre”, edito da Mursia, Arpino attesta, infatti, che gli islamici, da lui incontrati nelle conferenze internazionali, ritengono che il termine “moderato” sia un’offesa per i veri seguaci di Maometto. Moderato, dunque, significa non più islamico.

Di seguito, Arpino rivelò che, durante gli incontri con gli Occidentali,  i moderati ripetono continuamente che L’islam politico dei terroristi è deviazione dalla vera interpretazione moderna, che esiste”. Ma aggiunge immediatamente che essendo l’ambiente degli incontri per lo più laico, non sono rimasto del tutto convinto che ciò sia davvero il sentimento comune”.

C’è da augurarsi che il giudizio dei teologi medievali e le chiare puntualizzazioni di Brandmüller ed Arpino, destino nelle autorità religiose e politiche una più realistica ed allarmata considerazione dei problemi posti dalla strisciante invasione islamica.


[1]           Il testo di padre Ricoldo è stato pubblicato nel 1992 da Nardini editore in Firenze. Il curatore e commentatore dell’opera, Giuseppe Rizzardi, nutrito di opinioni largamente “ecumeniche”, tentò  di correggere i giudizi dell’intransigente padre Ricoldo, senza peraltro ottenere risultati significativi.

[2]           Cfr.: “Assisi: una preghiera, due modi d’intendere Dio (e l’uomo)”, in “Ragion politica”, 8 Ottobre 2004.

[3]           Cfr.: Emanuele II Paleologo, “Dialogo con un persiano”, prefazione di Rino Fisichella, Introduzione, traduzione e note a cura di Francesco Colafemmina, Rubettino, Soveria Mannelli 2007, pag. 44.    

[4]    “Dialogo con un persiano”, op. cit., pag. 65.

[5]    Cfr.: “Dialogo con un persiano”, op. cit., pag. 16.

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