Le missioni cristiane in Cina. Una storia di ‘eroismi’ e di discriminazioni. Di Alberto Rosselli.

Matteo Ricci, il primo predicatore 'moderno' in Cina.

La presenza del cristianesimo in Cina risale alla prima metà del VII secolo, con l’arrivo dei primi monaci cristiano-nestoriani: evento ufficialmente attestato dal ritrovamento, avvenuto nel 1625 a Chang An (XiAn), di un’antica stele. (2) Il manufatto, attualmente custodito nel Museo Provinciale dello Shaanxi, venne eretto in un monastero della chiesa siro-orientale a Chang An (attuale Xi’an), capitale della dinastia Tang. La stele, sul cui vertice è apposta una croce, è incisa in caratteri siriaci (probabilmente la comunità nestoriana di Chang An era formata proprio da monaci di questa regione giunti sul posto dopo avere percorso la Via della Seta) e cinesi. Essa riporta un breve resoconto della diffusione del cristianesimo (qui chiamato jingjiao, “Religione della Luce”) in Cina per opera del monaco siriano Alopen, giunto nel 635 a Chang An. Questo testo non è però unico nel panorama del cristianesimo siro-orientale del periodo Tang. Un’altra prova documentale la fornisce, infatti, il Libro sull’ascolto del Messia che, oltre a racchiudere un ritratto del volto di Cristo, ne riporta parte del suo insegnamento, definito come una via da percorrere (dao). In questo testo è possibile notare una riformulazione del messaggio cristiano attraverso l’utilizzo di terminologie e concetti tipicamente buddisti. Colpito dal ritrovamento del testo, l’imperatore Taizhong fece condurre approfonditi studi sulla “Religione della Luce”, permettendone poi la diffusione ed ordinando anche la costruzione di un monastero.

Dopo una prima fase di penetrazione favorita dall’amichevole atteggiamento delle istituzioni cinesi, nell’845 i monaci nestoriani furono messi al bando dall’imperatore taoista Tang Wu Zang, che governò dall’840 all’846, e che combatté prima il buddismo e poi tutte le altre religioni straniere. Sempre per quanto concerne i credo monoteisti, va ricordato che durante il VII secolo, attraverso la Via della Seta giunsero in Cina anche diversi mercanti ebrei che in seguito fonderanno quattro comunità, quella di Harbin, di Shanghai, di Canton e di Kaifeng. Quest’ultima, scoperta nel XVII secolo dal grande studioso, esploratore e convertitore gesuita Matteo Ricci, risalirebbe alla dinastia Song (960-1279).

Nonostante l’irrigidimento del potere centrale nei confronti delle religioni,  i cristiani non scomparvero totalmente dal territorio cinese. Nell’XI secolo si ha, infatti, notizia di un nucleo, ancora residente a Canton, costituito probabilmente da mercanti persiani, mentre altre nuove comunità continuarono a resistere nei regni settentrionali turco-mongoli dei Liao e dei Jin. Dalla messa al bando dei nestoriani bisognò attendere il XVIII secolo – se si esclude l’ambasceria del francescano perugino Giovanni da Pian del Carpine inviato nel 1245 in Mongolia da papa Innocenzo IV per convincere il Gran Khan ad entrare in guerra contro gli ottomani – prima che il cristianesimo romano iniziasse ad essere predicato in Asia orientale.

Fu grazie al frate minore francescano Giovanni da Montecorvino (1246 – 1328), che, nel 1294 avvenne il primo contatto tra il cattolicesimo e la cultura cinese. Giunto a Pechino, Giovanni da Montecorvino fu accolto amichevolmente dai regnanti della dinastia mongola Yuan (1279-1368), tanto da consentirgli di avviare un’opera di evangelizzazione che egli svolse con un certo successo, tanto da indurre papa Clemente V ad inviare in oriente altri frati e a fondare, nel 1307, a Pechino, una prima arcidiocesi con a capo lo stesso frate pioniere.

Verso la metà del XVI secolo, grazie all’opera del missionario Francesco Saverio (Francisco de Javier y Jaso, 1506–1552) i gesuiti sbarcarono a Goa (India), per poi visitare la penisola di Malacca, il Giappone e la città cinese di Macao, da dove iniziarono a penetrare all’interno del vasto impero (nel 1552, proprio durante questi spostamenti, Francesco Saverio morì sull’isola di Sancian). Il consolidamento definitivo del credo cattolico in terra cinese ebbe modo di realizzarsi soltanto alla fine del XVI secolo Nel 1582, il già citato gesuita maceratese Matteo Ricci fece, infatti, breccia a corte, guadagnandosi, in virtù del suo carisma e del suo acume, la stima delle più alte cariche imperiali ed anche il titolo di “Maestro del grande Occidente” (3).

Uno dei maggiori meriti dei gesuiti fu quello di fare scoprire all’Europa – dopo l’entusiasmante esperienza compiuta, tra il 1271 e il 1288, dal veneziano Marco Polo da suo padre Niccolò e dallo zio Matteo –  il misterioso pianeta Cina. Anzi, si può dire che Ricci e il missionario e linguista Michele Ruggieri (1543 –1607) andarono ben oltre, creando addirittura una nuova scienza, la “sinologia” (quell’insieme di studi e ricerche che riguardano la cultura cinese nei suoi vari aspetti e nelle varie epoche storiche). Sotto il profilo dell’evangelizzazione, la predicazione di Ricci ebbe successo poiché basò la sua prassi sull’adattamento del cristianesimo ai valori cinesi derivati dal confucianesimo. Un tipo di predicazione, quello di Ricci, non ben visto tuttavia da una parte dei vertici della chiesa cattolica. Non a caso, nel 1707, il rappresentante del papa in Cina e India, il piemontese Charles-Thomas Maillard De Tournon (1668-1710) vieterà il “rito cinese” (introdotto da Ricci), rendendo il cattolicesimo inviso all’imperatore. Per la cronaca, tale cerimoniale religioso verrà riesumato un secolo più tardi dalla Propaganda Fidei, dicastero della Santa Sede fondato nel 1622 da Papa Gregorio XV con il duplice scopo di diffondere il cristianesimo nelle zone pagane e di difendere il patrimonio della fede nei luoghi ove le eresie avevano messo in discussione la genuinità del credo.

Quando Matteo Ricci giunse a Pechino, la dinastia Ming – Manciù stava vivendo il suo crepuscolo, dissanguata dalle guerre ingaggiate lungo il confine mongolo e in Corea, Paese, quest’ultimo, insidiato dall’impero giapponese. In questo agitato contesto, i gesuiti, come si è detto, riuscirono comunque a guadagnare rapidamente ampi consensi e notevole prestigio, grazie alla loro elevata preparazione culturale e scientifica e alle loro spiccate doti diplomatiche. Fino dall’inizio della loro missione, i membri della Compagnia di Gesù cercarono di applicare gli insegnamenti tratti dall’esperienza fatta in Giappone (dove si erano installati nel 1580), non interferendo con l’autorità statale, acquisendo nomi cinesi (mentre al contrario i battezzati cinesi ricevevano un nome cristiano) e adattandosi agli usi locali. Nella fattispecie, i gesuiti adottarono il costume tradizionale dei bonzi, anche se nel 1594, Ricci preferì passare a quello dei letterati cinesi: cambio indotto da svariate ragioni. Ricci si accorse, ad esempio, che in Cina lo statuto dei bonzi non era vantaggioso come in Giappone e che  la chiesa buddista (come d’altra parte tutte le altre) veniva sottoposta ad un controllo abbastanza serrato da parte  dello Stato. In secondo luogo, Ricci reputava che l’elegante abito in seta conferisse ai missionari un carisma che li avrebbe facilitati a rappresentare e a propagandare il cristianesimo sia tra il popolo sia tra le classi più elevate. Atteggiamenti e scelte, questi, che fecero indubbiamente colpo tra le masse e tra le élite di governo, inducendo, nel 1692, l’imperatore della dinastia Qing, Kang Xi (1654-1722) a proclamare l’editto di tolleranza religiosa con il quale autorizzò la predicazione e le conversioni al cristianesimo, annullando di fatto le precedenti leggi anti cristiane. Kang Xi concesse inoltre ai missionari di edificare chiese e luoghi di raduno. Insomma, li mise nelle condizioni di lavorare nel modo migliore.

Ciononostante, con il passare del tempo i gesuiti si accorsero di essersi impegnati in un’operazione che andava ben oltre le loro limitate forze. Rispetto alla massa dei fedeli da istruire e convertire, il numero dei missionari, ma anche quello delle strutture e dei mezzi a loro disposizione, risultava infatti del tutto insufficiente. Ragione per cui furono costretti ad escogitare soluzioni decisamente originali ed assai poco ortodosse per continuare nella loro opera e per accelerare e semplificare le procedure dei vari riti. Per superare l’ostacolo rappresentato dalla diversità linguistica, fu introdotta, ad esempio, la confessione a tre, cioè con la presenza di un interprete: pratica che, tuttavia, venne biasimata da non pochi alti prelati romani. “Nel 1700 – annota lo storico americano Liam Brockey, autore del saggio, Journey to the East. The Jesuit Mission to China, 1579-1724 – il gesuita José Monteiro inventò il primo manuale di conversazione rapida in mandarino, intitolato Vera et unica praxis breviter ediscendi, ac expeditissime loquendi sinicum idioma, suapte natura adeo difficile. Questo semplice ma utile dizionario conteneva le frasi essenziali per catechizzare i cinesi, ed anche espressioni necessarie per la vita quotidiana. Nel tentativo di aprirsi un varco nella società, nella mentalità e nel cuore di questo popolo, i gesuiti decisero di avvalersi degli espedienti e degli insegnamenti del loro pioniere, padre Ricci, cercando cioè di adattare, almeno in parte, il cattolicesimo alla cultura locale. Il confucianesimo inteso come filosofia, ad esempio, non venne mai trattato come elemento di fede avverso, ma alla stregua di una pratica morale in grado di conciliarsi con i principi cristiani, “così come un cristiano europeo – commenta Brockey –  poteva apprezzare Aristotele senza essere sospettato di eresia”.

A tale riguardo, i gesuiti tesero ad interpretare e a citare Confucio come una sorta di “maestro di vita”. La stessa tolleranza e malleabilità venne anche applicata nei confronti degli antichi riti di venerazione degli antenati, molto diffusi sia in Cina che in Giappone. Fu da questa sorta di atteggiamento pragmatico e illuminato che scaturì il già citato cattolicesimo di “rito cinese” che, tuttavia, nella seconda metà del XVII secolo i nuovi missionari domenicani e francescani contesteranno tenacemente nell’ambito di un più generalizzato attacco alla politica dei gesuiti: avversione che favorì l’infelice iniziativa di de Tournon che tenterà di imporre all’imperatore Kang Xi la presenza in Cina di un Superiore di tutti i missionari cattolici, creando così i presupposti per uno scontro frontale tra impero e cattolicesimo.

Dopo essersi rifiutato di accettare la nascita, all’interno del suo regno, di una sorta di “gerarchia religiosa parallela ed obbediente ad un sovrano straniero”, nel dicembre 1706, Kang Xi cambiò bruscamente registro emanando un nuovo editto molto restrittivo nei confronti dei missionari. Da quel momento, infatti, per esercitare il loro credo, i preti cattolici avrebbero infatti dovuto chiedere allo stesso imperatore una speciale licenza, il piao. “L´imposizione del piao – annota Brockey – rappresentava di fatto un esercizio del controllo imperiale sui missionari, non diverso dal principio di autorità a cui dovevano sottostare i monaci buddisti e taoisti. Esso divenne in pratica uno strumento per dividere i sacerdoti tra buoni e cattivi”.

Agli uomini di chiesa si impose quindi una duplice drammatica alternativa: non solo scegliere tra l’autorità papale e quella imperiale, ma anche fra continuare il loro apostolato o rinunciarvi. “Un dilemma – osserva Liam Brockey – destinato ad anticipare quello che dovranno vivere i preti cinesi nel 1957, quando Mao Ze Tung istituirà la Chiesa Patriottica, l´unica autorizzata dal Partito Comunista, i cui vescovi e sacerdoti verranno nominati dal governo dopo avere giurato fedeltà al regime. E come accadde nella Repubblica Popolare – continua Brockey – anche la scelta compiuta dai sacerdoti europei del XVIII non risultò compatta”. Quarantuno domenicani scelsero infatti l’esilio, mentre una cinquantina di gesuiti accettarono il piao, rimanendo entro i confini dell’impero, nella speranza, forse, di guadagnare tempo e riuscire a fare cambiare idea al papato. Un piccolo gruppo di missionari, infine, entrò in clandestinità, continuando a predicare in alcune regioni rurali della Cina meridionale, proprio come ai giorni nostri stanno facendo ai preti cinesi della cosiddetta “Chiesa sommersa”.

Nel 1723, con la morte di Kang Xi e l´avvento al trono di suo figlio Yongzheng, per i cristiani le cose peggiorarono ulteriormente. Il nuovo imperatore promulgò infatti un nuovo editto di totale condanna del cattolicesimo, fede giudicata alla stregua di una “setta perversa”. Ben presto si scatenò la repressione: parrocchie e seminari furono sequestrati e adibiti a scuole, ospedali e depositi. Nella provincia del Fujian, i luoghi di culto furono trasformati in templi per gli antenati. “E nell´ottobre 1724 – annota Brockey – tutti i gesuiti che avevano sfidato papa Clemente XI accettando il piao, furono arrestati dalle milizie imperiali, deportati a Canton e da lì imbarcati per l´esilio a Macao”. Per la cronaca, sempre nel 1724, con il preciso scopo di riaffermare il totale controllo su tutti i culti, l’imperatore ordinò anche la distruzione dei templi buddisti e lo sterminio di oltre un migliaio di monaci. Il 21 luglio 1773, data in cui papa Clemente XIV decretò con l’enciclica Dominus ac Redemptor l’abolizione dell’ordine dell’Ordine dei Gesuiti (che tuttavia verrà ricostituito nel 1814 da Pio VII) ebbe termine la prima fase dell’avventura missionaria gesuitica in Cina, con la cacciata di tutti i rimanenti fratelli.

Oggi, anche se a distanza di quasi tre secoli, l’espulsione dei gesuiti dal territorio cinese e le complesse ragioni che la determinarono, non sono state dimenticate dalla Chiesa, ma al contrario ampiamente rivisitate e ponderate, anche alla luce dell’attuale, drammatica situazione in cui vive la chiesa cattolica in Cina. Una riflessione che ha indotto anche ad ipotizzare – seppure attraverso l’utilizzo di una politica diversa – un possibile ritorno nel Paese della Compagnia. Lo scorso inverno, in occasione della 35ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù (svoltasi dal 7 gennaio al 6 marzo, a Roma, presso la Curia Generalizia), indetta per nominare il nuovo Superiore, prima di lasciare l’incarico al settantunenne padre Adolfo Nicolás, il dimissionario Superiore Generale, l’ottantenne padre Peter-Hans Kolvenbach, ha infatti accennato a tale opportunità. Auspicio che la stessa elezione di Adolfo Nicolás (prelato che ha trascorso quasi tutta la sua vita in Oriente), sembra rendere idealmente possibile. Laureatosi il filosofia e teologia a Tokyo, dov’è stato ordinato sacerdote, padre Nicolás ha ottenuto un master alla Gregoriana di Roma e ha diretto lo “Scolasticato” della capitale giapponese. Oltre a ciò, egli ha ricoperto l’incarico di provinciale del Giappone e di moderatore della Conferenza gesuita dell’Asia orientale e Oceania. Agli osservatori più attenti, l’elezione di padre Nicolás non è apparsa per nulla casuale, anzi ha rappresentato un preciso segnale in direzione del lontano Oriente, da dove ormai provengono circa la metà delle vocazioni dell’ordine.

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Verso la metà del XIX secolo, cioè molto tempo dopo l’esperienza cattolica, in Cina giunsero anche i primi missionari protestanti. Una penetrazione che poté però realizzarsi – contrariamente a quanto avvenuto per i missionari della Chiesa di Roma – grazie alla protezione della marina e dell’esercito britannici impegnati in Estremo Oriente in occasione della Prima (1839-1842) e della Seconda (1856-1860) Guerra dell’Oppio: conflitti scaturiti da motivi prettamente commerciali.

Intorno al 1825, la Compagnia inglese delle Indie Orientali, che agiva per conto delle autorità britanniche, intensificò la sua massiccia offensiva commerciale in Cina, imponendo anche lo smercio dell’oppio. Scopo di questo discutibile traffico era quello di ribaltare rapidamente lo squilibrio della bilancia dei pagamenti tra Gran Bretagna e Cina che, nella seconda metà del XVIII secolo, era favorevole a quest’ultima nella proporzione di uno a sei. La vendita dell’oppio ebbe gli effetti che la Compagnia delle Indie auspicava, ma per l’impero cinese essa si rivelò un disastro. Con l’incremento del consumo di questa potente droga, la corruzione e il malcostume (già diffusi in Cina) aumentarono ulteriormente favorendo anche un notevole deflusso di argento dalle casse dello Stato che, in breve tempo, portò ad una crisi economico-finanziaria gravissima e alla svalutazione del rame con il quale venivano pagati i prodotti e il lavoro dei contadini che, per contro, erano però costretti a versare nelle casse dell’erario imposte in argento. Di fronte a questa situazione, il governo imperiale si mostrò incapace di reagire in modo adeguato e, dopo avere ingaggiato e perso un primo confronto militare con l’Inghilterra (1842), nel 1958, al termine della Seconda Guerra dell’Oppio, fu costretto a sottoscrivere prima il trattato di Tianjin e, successivamente, quello di Pechino (1860). In base al primo, oltre a dovere pagare un’indennità assai più pesante rispetto a quella già versata a seguito dello sfortunato conflitto del 1839-‘42, il governo cinese fu costretto ad aprire alle navi britanniche quasi tutti i suoi scali marittimi e a concedere la libera circolazione sul suo territorio a mercanti e missionari stranieri. Con il trattato di Pechino, anche altre potenze occidentali ottennero esenzioni doganali, il libero accesso delle loro flotte alla rete portuale e fluviale cinese e il permesso di stabilire legazioni diplomatiche nella capitale.

Va comunque detto che la nuova, massiccia penetrazione occidentale non migliorò le condizioni della comunità cristiana (cattolica e protestante) in quanto quest’ultima iniziò ad essere percepita dalle gerarchie e dal popolo cinesi come la longa manus delle invadenti potenze straniere. Verso la fine dell’Ottocento non soltanto l’Inghilterra, ma anche Francia, Germania, Austria-Ungheria, Russia, Stati Uniti, Italia e Giappone (che aveva già battuto la Cina al termine del conflitto 1894-1895 per la supremazia sulla Corea), incominciarono ad architettare un’autentica spartizione dell’ormai decadente Impero Celeste, accendendo una violenta reazione che si tradusse nello scoppio di moti a sfondo nazionalista e addirittura xenofobo. Non a caso, nel 1900, le forze dell’imperatrice Tze Hsi (1835-1908) della dinastia Qing e quelle dei guerrieri della setta antioccidentale, originaria dello Shantung, dei “Boxer” (chiamata in origine “Pugni di giustizia e concordia”) tentarono di ribellarsi con le armi, innescando una breve ma sanguinosa guerra nel corso della quale persero la vita circa 30.000 tra missionari e fedeli cristiani. Dopo avere occupato il porto di Tientsin ed avere liberato le legazioni occidentali assediate a Pechino dai Boxer e dalle forze imperiali, l’esercito delle Otto Nazioni (Russia, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Germania, Austria-Ungheria e Italia) al comando del generale tedesco Alfred von Waldersee batté le truppe di Tze Hsi e quelle Boxer, imponendo all’imperatrice una pace umiliante. Oltre che al pagamento da parte cinese di una notevole indennità, le potenze straniere si arrogarono il diritto di stanziare proprie truppe nel quartiere delle legazioni di Pechino (proteggendo in questo modo anche l’attività dei missionari) e quello di giustiziare migliaia di guerrieri Boxer.

Come ha osservato Giuseppe Butturini, docente di Storia delle Missioni presso l’Università di Padova, la situazione dei cattolici in Cina “iniziò a precipitare proprio con la rivolta dei Boxer, e con la successiva caduta del regno (1911)”. Eventi che, come si è detto, misero gli uomini di chiesa in una condizione di forte precarietà, come ebbero modo di descrivere molto lucidamente Antonio Cotta e Vincent Lebbe (che fondò, tra l’altro, il primo quotidiano cattolico cinese)  missionari lazzaristi favorevoli alla creazione di una Chiesa cattolica cinese. Tra il 1915 e il 1920, anche in seguito a carestie e disordini interni, la vita e l’attività delle missioni divennero addirittura insostenibili, tanto da indurre il papa ad inviare in qualità di messo apostolico l’allora prefetto di Propaganda Fide, Willem Van Rossum, che avviò subito una rielaborazione della metodologia tradizionale attraverso l’analisi esposta da Lebbe e Cotta. “Per essere evangelizzati, i cinesi non avevano bisogno di una specie di ‘superbattesimo’, come sosteneva ancora nel 1911 in un suo libro padre Kervyn. Sarebbe bastato, infatti, applicare la metodologia descritta negli Atti degli Apostoli”. Questo, in sintesi, il pensiero dei due missionari.

A partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, i rapporti tra il nuovo governo repubblicano del leader Sun Yat-sen (1866-1925), la comunità cattolica locale e la Santa Sede si fecero, se possibile, ancora più difficili a causa dell’accresciuta, spontanea diffidenza della élite di potere nei confronti del cristianesimo, accusato di svolgere il ruolo di veicolo propagandistico delle Potenze occidentali interessate a mantenere politicamente debole la giovane repubblica succeduta all’impero. Sun Yat-sen attaccò ripetutamente e duramente la religione cristiana, non soltanto perché considerata estranea alla cultura cinese e “anticonfuciana” (critica mossa negli ultimi decenni dell’Ottocento da diversi notabili dell’impero), ma anche perché, secondo le correnti “moderniste” repubblicane, il cristianesimo – come del resto lo stesso confucianesimo, canonizzato alla stregua di un’ideologia passatista e “reazionaria” – si sarebbe presumibilmente opposto alla scienza e al progresso.

L’indice di insofferenza raggiunse punti tali da indurre buona parte dei nuovi intellettuali cinesi imbevuti di teorie marxiste e positiviste a mettere al bando la Chiesa, che essi consideravano, tra l’altro, un pericolo ben individuato anche da tutta la popolazione cinese. Accusa abbastanza inesatta se si pensa che, tra il 1900 e il 1920, il numero dei cittadini cinesi convertiti al cristianesimo era praticamente raddoppiato (indice significativo per un Paese che avrebbe dovuto avere in odio questo credo), raggiungendo complessivamente i quattro milioni di fedeli. A questo proposito, nel 1920, due riviste – Giovane Cina e Nuova Gioventù (fondata a Shanghai nel 1915 da Chen Duxiu), quest’ultima di chiara ispirazione comunista – pubblicarono numerosi articoli, interrogandosi appunto sul ruolo della religione rispetto al progresso e alla scienza, e sulla validità di una fede, quella cristiana, affermatasi grazie alla protezione di potenze straniere imperialiste. Dichiarazione, quest’ultima, in verità alquanto generica dal momento che non il cattolicesimo, ma semmai il protestantesimo, soprattutto anglicano, si erano diffusi in Cina anche grazie alla protezione delle armi.

Detto questo, agli inizi degli anni Venti, gli intellettuali cinesi si divisero grosso modo in due fazioni: una favorevole e l’altra contraria alla religione. Tra il 1922 e il 1923, venne pubblicato il Manifesto degli studenti anticristiani di Shanghai e la Dichiarazione degli studenti di Pechino, testo che si opponeva con forza al pensiero religioso. Essi seguivano in pratica la pista tracciata dal laico Sun Yat-sen (propugnatore dei famosi “tre principi del popolo” (San Min Zhuyi) che stavano alla base del suo pensiero politico: nazionalismo, democrazia e “benessere per il popolo”. In sintesi, una forma moderata di “nazionalismo-socialdemocratico” che, pur ripudiando la cultura confuciana e imperiale, respingeva tuttavia l’idea di un drastico livellamento sociale (quello propugnato da intellettuali come Chen Duxiu e Li Dazhao, che nel 1921, a Shanghai, avevano fondato il Partito Comunista Cinese) affidando ad ogni uomo il proprio posto nella società civile secondo capacità e meriti personali. Tesi, queste, sostenute anche dai partecipanti ai lavori del I° Congresso del Partito Nazionalista cinese o Nuovo (per distinguerlo da quello del 1912) Kuomintang. Si trattava di una compagine laica e per certi versi vicina agli ideali socialisti, almeno fino al 1927, cioè quando si spaccò in due tronconi, dando origine ad altrettante distinte ed avverse fazioni, quella nazionalista di Chang Khai Sheck e quella marxista guidata dal nuovo leader Mao Tse Tung.

In questo contesto, nel 1919 venne emanata l’enciclica Maximum Illud con la quale Benedetto XV (1914-1922)prese le distanze dal colonialismo europeo, ponendo l’accento sulla formazione di “strutture ecclesiastiche autoctone nei paesi extraeuropei”.

La Maximum Illud si inserì quindi nel nuovo assetto mondiale, successivo alla Pace di Versailles, in un momento in cui il papato percepì i segnali di una grave crisi identitaria e spirituale dell’Europa cristiana postbellica. Con questa lettera apostolica la Chiesa, non senza una certa leggerezza (la portata dei profondi e violenti sovvertimenti politici interni cinesi non fu forse realmente compresa) mosse i primi passi verso l’avvio di un dialogo interculturale e interreligioso, promuovendo la formazione di un clero indigeno e l’abbandono di ogni atteggiamento nazionalistico da parte dei missionari (ritenuto pericoloso oltre che inutile) ed evidenziando un netto distacco dai governi occidentali, nella speranza di imbonirsi quello cinese. Tra coloro i quali si dimostrarono più aperti nell’ambito della nuova fase dell’evangelizzazione fu il nunzio apostolico Celso Costantini, convinto assertore del fatto che in Cina la religione cristiana continuasse ad essere interpretata dal popolo come una fede al servizio dell’imperialismo. E proprio per stornare questo supposto pericolo, nel corso della sua opera Costantini cercò di rifarsi al modello missionario delle origini, cioè a quello propugnato secoli prima dal gesuita Matteo Ricci. Un sistema che se nel XVII aveva dato buoni risultati con gli imperatori di scuola confuciana, nel XX non avrebbe – come si vedrà – incontrato esattamente il medesimo favore da parte dei nuovi poteri “rivoluzionari”, laicisti e sostanzialmente atei dell’era repubblicana.

Secondo il già citato professore Giuseppe Butturini, in seguito e grazie alla Maximum Illud “la Cina del periodo compreso tra le due guerre, divenne una sorta di laboratorio missionario. Nel 1926, furono consacrati i primi sei vescovi indigeni. E nel 1927, la Santa Sede, sorprendendo tutte le nazioni europee, riconobbe la legittimità del nuovo governo cinese, non chiedendo per sé alcun privilegio particolare. Poi, nel 1929, dopo avere partecipato ufficialmente ai funerali dell’anticlericale presidente cinese Sun Yat Sen (gesto dal chiaro ed efficace valore simbolico, N.d.A.), il Vaticano iniziò a lavorare per la risoluzione della questione dei “riti cinesi”, che verrà chiusa tra il 1934 e il 1939”.

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