Alla crisi generale espressa dal nichilismo attuale occorre rispondere con nuovi paradigmi e nuove norme? Di Francesco Lamendola (*).

Nietzsche, ritratto da Munch.

Una tesi oggi molto dibattuta, anzi, vorremmo dire la tesi centrale alla quale tutte le altre, in un modo o nell’altro, si ricollegano, è se sia possibile uscire dall’attuale stato di nichilismo generalizzato, senza elaborare nuovi paradigmi e nuove norme etiche, dato che quelli vecchi sarebbero ormai irrimediabilmente logorati.

Subordinata a tale questione centralissima, vi è quella di capire se l’attuale dominio esercitato dalla tecno-scienza sulla società sia il naturale punto d’arrivo del predominio del Logos nella filosofia occidentale; o se esso, al contrario, ne costituisca una deviazione e una aberrazione.

Partiamo dalla prima questione.

Alcuni filosofi e storici della filosofia, tra i quali Franco Volpi, fanno presente che il nichilismo, comunque sia, ha ottenuto di imprimere un segno così profondo sul mondo moderno, da aver costretto il pensiero umano a ripensare radicalmente sé stesso.

Citando  Dubuffet, artista e teorico dell’avanguardia,  secondo il quale «il nichilismo sarebbe l’unico cammino che ha costretto l’uomo a stabilirsi nella chimera», Volpi riconosce al nichilismo il «merito» di averci insegnato che «noi non abbiamo più una prospettiva privilegiata  in grado di parlare per tutte le altre, che non disponiamo più di un punto archimedeo, facendo leva sul quale potremmo di nuovo dare un nome all’intero»: non la religione né il mito, né  l’arte, né la politica, e neppure la scienza medesima. Saremmo, pertanto, obbligati a ripensare a fondo le radici stesse del pensiero.

E qual è la conclusione cui arriva Franco Volpi, al termine di questo ragionamento? Semplicemente questa: che, d’ora in poi, non potremo fare altro che «navigare a vista», perché certezze non ve ne sono né ve ne saranno più; e, in fondo, è bene che sia così, perché in questo modo abbiamo potuto liberarci dalla zavorra di tanti inutili dogmatismi.

Per usare la sua colorita espressione, noi moderni siamo  simili a una Penelope che disfa incessantemente la sua tela, perché non sa se Ulisse ritornerà; quindi «la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo».

Eppure, in questo ragionamento c’è qualcosa che non ci convince sino in fondo

Innanzitutto, Volpi dà un po’ troppo per scontato che il mondo moderno sia dominato dalla tecno-scienza. Ricordiamo una tavola rotonda, all’Università di Venezia, due o tre anni fa, nella quale, davanti a una analoga affermazione di Emanuele Severino, Raymon Panikkar ribatté con la massima calma: «Si dice che la società odierna sia dominata dalla tecnologia. Me, non mi domina affatto»; e non era una semplice boutade.

Il fatto è che non la tecnica, ma il Logos che ha prodotto la strapotenza della tecnicaè l’elemento veramente pericoloso; è esso che va ridimensionato, rivisto, modificato. Per il resto, bisogna pur dire che nessun uomo è mai stato sottomesso a un potere, senza che in qualche parte del suo essere egli non abbia acconsentito a una tale sottomissione.

Non bisogna immaginarsi la tecno-scienza come un elemento puramente esterno, che ci aggredisce e ci sottomette dal di fuori: questa non è una ricostruzione onesta dei fatti. Certo sarà comoda per scaricarci delle nostre responsabilità e per giustificare la nostra passività, ma non risponde a verità. È vero, semmai, che ci fa comodo presentare così le cose, perché questo ci dà l’impressione che il dominio della tecnoscienza sia un evento assolutamente irresistibile. E che colpa ne abbiamo, se non siamo in grado di opporci a ciò che è irresistibile?

Questo ci riporta alla domanda sui nuovi paradigmi e sulle nuove norme.

È proprio veri che, per opporci al trionfante nichilismo, dobbiamo elaborare nuovi paradigmi e nuove norme; perché, diversamente, non faremmo altro che cullarci in un umanesimo ormai totalmente superato, illudendoci di fermare un aereo a reazione azionando dei freni di bicicletta? Di nuovo, ci sembra che chi pone così la questione, voglia suggerire che non c’è niente da fare:  nichilismo e tecnoscienza sono troppo forti; non ci resta che accettare la sfida sul loro terreno ed elaborare nuove certezze e nuovi valori, i quali tengano conto della «lezione» impartitaci dal  nichilismo stesso.

E quale sarebbe questa «lezione», in che cosa consisterebbe la sua verità?

Secondo Volpi, nel fatto che davvero non ci sono più paradigmi e norme universalmente validi; e che, pertanto, dobbiamo accontentarci di una prudente navigazione costiera, senza spingerci mai troppo al largo. Davvero, più che accettare la sfida, questa ci sembra una resa totale e incondizionata: tanto più discutibile, in quanto che non tutti i difensori sono persuasi di essere stati veramente battuti; e, a dire il vero, anche molti degli attaccanti manifestano crescenti segni di disagio verso il proprio comando supremo, che sembra curarsi ben poco della maniera in cui li manda al macello…

Al di là della opinabile celebrazione del «pensiero debole» in tutte le sue forme, nonché di tutte le sue derivazioni nei vari campi dell’attività umana (della cosiddetta art brut, per esempio, nel campo dell’estetica), non siamo affatto d’accordo sul fatto che i nostri generali sembrano aver deciso di  ordinarci di deporre le armi e di accettare le condizioni imposte dall’aggressore (ché quella del nichilismo è una vera e propria aggressione, e la tecno-scienza ne è il «battaglione sacro» o, se si preferisce, la punta di diamante).

Una sana dottrina militare insegna, nell’ABC della strategia, che un esercito può considerarsi veramente battuto solo quando si senta irrimediabilmente battuto. Ma è proprio questa la nostra situazione attuale? Non è forse vero, al contrario, che moltissime persone avvertono un sordo sentimento di ribellione contro la «civiltà del disagio», contro i ritmi disumani della tecnica e contro la marea fangosa del nichilismo stesso?

Se, dunque, elaborare nuovi paradigmi e nuove norme vuol dire buttarli a mare tutti, oppure fare finta di adeguarvisi, con la consapevolezza della loro assoluta transitorietà e inefficacia – come Volpi suggerisce esplicitamente -, allora non ci sembra davvero che si sia fatto un gran passo avanti per andare oltre il nichilismo.

Secondariamente, è proprio vero che i vecchi paradigmi e le vecchie norme sono divenuti ormai del tutto obsoleti e inutilizzabili? E se fosse vero il contrario: e cioè che questo culto di tutto ciò che è moderno non è altro che una forma di provincialismo culturale che ha già fatto il suo tempo, se non altro perché ciò che era moderno al tempo di Nietzsche, o anche di Dubuffet, è divenuta ora terribilmente démodé? Infatti, bisogna essere coerenti: se si accoglie l’assunto «moderno» (e nichilista) secondo il quale valori e certezze si usurano con la stessa velocità con cui la tecnica usura se stessa, allora bisogna anche avere il coraggio di dire che mettere in pratica lo slogan di Rimbaud «bisogna essere assolutamente moderni» è, alla lettera, impossibile. Infatti, non si farebbe in tempo ad adeguarsi all’ultima versione della modernità, che già ci si troverebbe sospinti, pur con tutta la buona volontà di mantenersi al passo, nella soffitta delle anticaglie.

Forse, quello di cui abbiamo realmente bisogno non sono nuovi paradigmi e nuove norme; forse quello che occorre è di rendere vive e operanti quelle che già possediamo: prima fra tutte la visione cristiana e umanistica del mondo. E lo diciamo senza alcuna sfumatura di settarismo; lo diciamo nel senso in cui Benedetto Croce, che cristiano non era, sosteneva che «non possiamo non dirci cristiani».

A chi ci obiettasse, poi, che in un mondo globalizzato non possiamo riproporre steccati ideologici, e che un musulmano o un cinese (ma che cosa vuol dire essere cinese, oggi, in senso spirituale?), non accetteranno mai un simile punto di partenza, rispondiamo che non si tratta affatto di steccati, e che solo una dialettica fra visioni del mondo «forti», ossia fra visioni globali, può produrre un incontro fruttuoso tra le varie componenti del mondo odierno. Il «pensiero debole», in tutte le sue forme, non ha mai prodotto nulla di fecondo; tanto meno potrebbe farlo in un’epoca di intensi scambi culturali e di serrato confronto tra i paradigmi delle grandi culture mondiali.

Scrive Franco Volpi, docente di Filosofia all’Università di Padova, nel suo saggio Il nichilismo (Editori Laterza, Roma, 1996, 2205, pp. 175-177):

La realtà è che si sta ripetendo oggi, in misura aggravata in ragione del    quadro nichilistico e del carattere planetario e complesso della vita moderna, la risi che ha solcato altre epoche storiche e che è caratterizzata dal conflitto tra visioni del mondo e sistemi di norme differenti, dalla difficoltà di inquadrare nei paradigmi etici tradizionali azioni e fatti morali di nuovo tipo, dalla concorrenza tra le diverse teorie etiche che genera logomachie senza vincitori né vinti e dà come risultato l’indifferenza, il relativismo e lo scetticismo.

Le cose non vanno meglio sul piano pratico. Sono svanite la forza vincolante delle norme morali e la possibilità che esse trovino disponibilità ad essere accettate e applicate. Anche qui bisogna constatare: Paradigm lost[con gioco di parole rispetto al Paradise lost di Milton]. I riferimenti tradizionali – i miti, gli dei, le trascendenze, i valori – sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnico ha prodotto l’indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e l’isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella di freni di bicicletta montati su un jumbo jet (Beck, 1988: 194). Sotto al calotta d’acciaio del nichilismo non v’è più virtù o morale possibile.

Il fatto è che il paradigma perduto è stato sostituito da uno nuovo che impone i propri imperativi a ogni condotta e comportamento umano.  È il paradigma tecnico-scientifico. La scienza e la tecnica  – che raccorciano lo spazio e velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che nobilitano e sfruttano le risorse del pianeta – forniscono una guida assai più efficace e coercitiva di quanto non possa fare la morale. Impongono obbligazioni che vincolano più di tutte le morali scritte nella storia dell’umanità, rendendo superfluo, d’ora in avanti, ogni altro imperativo. La scienza e la tecnica organizzano la vita sul pianeta con l’ineluttabilità di uno spostamento geologico. Al loro cospetto l’etica e la morale hanno ormai la bellezza dei fossili rari.

L’uomo contemporaneo non ha alternative: qualsiasi cosa pensi o faccia, è già comunque sottomesso alla coercizione della «tecno-scienza». Ciò nonostante egli si culla ancora nell’illusione edificante dell’umanesimo tradizionale e dei suoi ideali, che appaiono però impotenti rispetto alla realtà della tecno-scienza e che producono, tutt’al più, un’evasione e una compensazione. C’è che pensa – come Heidegger – che inquietante oggi non sia il fatto che il mondo diventi completamente tecnico, ma che l’uomo si trovi impreparato a questa trasformazione del mondo. Chi si attarda a pensare in termini di etica e morale, non è ancora all’altezza della sfida della tecno-scienza. A chi gli domandava perché dopo Essere e tempo non avesse ancora scritto un’etica, Heidegger rispondeva che un’etica adeguata ai problemi del mondo moderno è già implicita nella comprensione dell’essenza della tecnica. Qualsiasi altra etica – pensata a misura del singolo – sarebbe inadeguata alla macroazione planetaria dell’umanità, rimarrebbe qualcosa di «penultimo» rispetto alle realtà ultime prodotte dalla tecno-scienza. Nell’età dominata dal nichilismo le etiche rimangono sul piano dell’omiletica.

La domanda che a questo punto si impone è se il nichilismo sia davvero – come riteneva Heidegger – un approdo inevitabile del razionalismo occidentale, una sorta di inveramento essenziale del potere distruttivo sella razionalità nata con i Greci, o se esso non sia piuttosto – come pensava Husserl – un tradimento dell’originaria idea di ragione, un imbarbarimento e un impoverimento di quel logos che con Socrate, Platone e Aristotele aveva saputo imporsi sul nichilismo di un Gorgia.  Questo dilemma ha tormentato il pensiero contemporaneo – lo testimonia la polemica in merito alla «critica totale della ragione» intercorsa tra due suoi esponenti di spicco, Apel e Derrida – e, se mai si potrà dirimerlo, appare indispensabile per farlo una distanza storica che ancora non abbiamo maturato.

Ancora non sono tropo lontani i tempi in cui Talleyrand diceva che per stabilire qualcosa di durevole occorre agire secondo un principio: con un principio noi siamo forti e non incontriamo resistenza. Ma noi sappiamo.- grazie a questo diplomatico capace di servire tanti sovrani e di arrivare prima o poi a tradirli tutti, grazie a questo principe camaleontico capace di indossare i panni dell’Ancien Régime sulla pelle dell’individuo moderno e di conciliare virtù cristiane e laicità, princìpi morali e realismo politico – che questa dichiarazione nasconde il suo esatto contrario e che queste dichiarazioni di princìpi mascherano oggi l’assenza di princìpi. Principes, c’est boien! Cela n’engage point. Perciò quando oggi ci si richiama ai princìpi, sin ha l’impressione che qualcuno stia mentendo. La figura di Talleyrand , con la sua fedeltà alla massima larvatus prodeo, segnala quanto il nichilismo sia diventato realtà (cfr. Calasso, 1983).

Ma – ci si chiede – se è vero che il nichilismo comincia là dove cessa la volontà di autoingannarci, possiamo allora trasformare l’esperienza che ne abbiamo fatto in un insegnamento, ovvero in un vigoroso invito alla lucidità del pensiero e alla radicalità del domandare –  in un’epoca in cui gli altari abbandonati vengono abitati da demoni?

Tuttavia, proprio perché gli altari abbandonati vengono popolati da demoni, ci sembra evidente che solo un pensiero forte può aiutarci a sventare la minaccia da essi rappresentata; e ricordiamo che pensiero forte non significa affatto pensiero autoritario, ma, semplicemente, pensiero che ha fiducia in sé stesso, pensiero che crede sino in fondo – e sia pure in maniera critica e problematica – alla propria concezione del mondo. Insomma, un pensiero serio: perché serio non è un pensiero che non si prende sul serio.

Giungiamo così alla seconda domanda che ci eravamo posta all’inizio: se la presente degenerazione nichilista sia il logico approdo della forma razionale del pensiero greco e dei successivi sviluppi della filosofia occidentale, o se non ne costituisca – piuttosto – un sostanziale tradimento.

La cosa si presta a sterili e infinite discussioni teoriche, e non ci interessa più di tanto, se non nella misura in cui può aiutarci a comprendere come  si è verificato questo fatto inaudito, e al quale abbiamo finito per rassegnarci un po’ troppo di buon grado: che le macchine, a un certo punto, hanno finito per imporre la loro logica agli esseri umani.

Il nostro personale convincimento è che non verremo mai a capo della questione se non specifichiamo un po’ meglio che cosa intendiamo per Logos e per razionalismo degli antichi Greci. Se per Logos intendiamo un pensiero strumentale e calcolante, finalizzato alle logiche della manipolazione degli enti e del dominio, allora dobbiamo dire che questo elemento è certamente presente nell’antica filosofia greca, già da prima di Socrate; ma che non ne costituisce il tratto essenziale. Non, almeno, fino a quando i tardi epigoni di Aristotele hanno voluto forzare le istanze razionalistiche, presenti nel pensiero del loro maestro, fino a far praticamente scomparire la dimensione del mito, ancora così viva e rigogliosa in Platone, e a relegarla nel magazzino delle cose vecchie. A partire da quel momento, il pensiero occidentale ha imboccato una strada che lo ha portato ineluttabilmente alle forme odierne del nichilismo e alla sua manifestazioni estrema, ossia al dilagare sempre più invasivo della tecnoscienza.

Ma sostenere, come fa Emanuele Severino e come fanno altri, che praticamente tutto il pensiero greco e tutto il pensiero occidentale è intimamente nichilista, perché impregnato di metafisica, francamente ci sembra una forzatura e una tesi ad effetto, ma – come direbbe Popper – assai poco falsificabile, dunque assai poco «scientifica».

Se la metafisica non è altro che nichilismo, allora chi mai potrà salvarci dal nichilismo, se non colui che getterà nel cestino della carta straccia tutta la metafisica?

Questo ci sembra veramente un po’ troppo.


Hans Jonas e i semi del nichilismo contemporaneo

Anche se oggi è assai di moda dire tutto il male possibile della metafisica, non ci sentiamo di essere così ingiusti nei confronti di essa, da unirci a quel coro.

La metafisica è, in buona sostanza, il riconoscimento che vi è una dimensione altra, al di là del contingente e del diveniente; e, in ciò, essa rende agli uomini un servizio inestimabile: quello di ricordare loro che non sono Dio, pur essendovi in essi una scintilla divina. Se la metafisica non ci fosse stata, bisognerebbe inventarla. O forse, oggi, reinventarla: perché, senza di essa, non ce la faremmo mai a uscire dalle sabbie mobili in cui siamo affondando sempre più, grazie ad un razionalismo così estremista, che ci ha condotti sino alle ultime frontiere del relativismo, dello scetticismo e del nichilismo.

(*) Per gentile concessione di: http://www.accademianuovaitalia.it

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