‘Surgun’: Il tabù della ‘turchizzazione’ dell’Albania. Di Francesca Niccolai.

Giovane ragazza albanese in costume turco.

Mentre la storiografia sovietica, in nome dell’internazionalismo marxista, ma anche della mera logica, ha sempre valorizzato il contributo dei popoli della steppa alla formazione della nazione russa – dai mongoli ai tartari ai turcomanni in generale – le storiografie balcaniche sviluppatesi nel secondo dopoguerra sono tutte accomunate dall’assoluta negazione di una presenza fisica dei turchi nella penisola subdanubiana, nonostante cinque secoli d’occupazione ottomana. Roba da fare impallidire la regina Isabella di Castiglia, che predicava la “limpieza de sangre” dopo otto secoli di presenza araba in Spagna, e perfino il dottor Mengele.

Particolarmente curioso è il caso dell’Albania, unico paese balcanico ed europeo dove la maggioranza della popolazione ha abbracciato la fede coranica durante la dominazione ottomana. Nonostante la religione, gli usi e costumi degli albanesi rispecchino completamente quelli anatolici, gli storici albanesi sono tutt’oggi i più attivi nell’affermare la purezza della razza schipetara, riconducendola alle antiche popolazioni illiriche e negando dogmaticamente qualunque apporto esterno. Ma la storia è andata diversamente e il territorio dell’attuale Albania ha conosciuto, tra le altre, la colonizzazione da parte di nuclei turcofoni provenienti dalle più disparate e remote regioni dello sconfinato impero ottomano.

La Sublime Porta era solita praticare la politica del sürgün, vale a dire la deportazione di massa. Nei secoli XIV e XV, l’espansionismo dei sultani nei territori balcanici fu accompagnato da deportazioni forzate di turchi dall’Anatolia e dallo stanziamento di guarnigioni turche lungo le nuove frontiere europee e nelle regioni più turbolente. Il secondo sultano ottomano, Ohran, aveva organizzato un esercito regolare formato da fanti (yaya, donde il cognome albanese Jahja) e da cavalieri (müsellem, donde il cognome albanese Myslymi), nel quale fu arruolato un crescente numero di turchi nomadi detti yürük, che venivano utilizzati come truppe d’assalto all’inizio delle battaglie o come scorridori, detti akinci, incaricati di saccheggiare e terrorizzare i territori ribelli. I nomadi yürük, ma anche i tartari, furono dislocati in regioni remote e difficili da conquistare e soprattutto in Albania, dove la loro presenza rafforzava l’autorità ottomana (in Kosovo, ad esempio, erano incaricati di fare la guardia alle miniere). Come già i selgiuchidi prima di loro, anche gli ottomani compresero che occorreva inviare i nomadi alla periferia dell’impero, dove potevano risultare utili senza arrecare danno al cuore dei territori del sultano: era meglio che andassero a saccheggiare qualcun altro.

Il tramonto dell’Impero Ottomano.

Il consolidamento dello stato ottomano fece sì che buona parte dei turchi nomadi diventassero sedentari, trasformandosi in agricoltori, mentre quanti rimasero guerrieri entrarono a far parte del sistema amministrativo del timar, vivendo mantenuti dalle tasse e dagli abitanti dei villaggi e rimanendo disponibili per la guerra quando ve ne fosse bisogno. I conquistatori ottomani procedettero inoltre allo stanziamento di comuni contadini e pastori turcomanni come coloni nei territori balcanici di maggior rilievo strategico. I sultani conseguivano così il doppio risultato di infrangere l’unità delle popolazioni cristiane, agevolando la diffusione dell’islam mediante la presenza fisica di elementi già musulmani, e di ripopolare distretti devastati dalle guerre.

La principale ondata di immigrazione turca nei Balcani ebbe luogo durante la fase iniziale della dominazione ottomana, quindi nella seconda metà del XIV secolo. Dopo la decisiva vittoria del 1371 a Černomen, sul fiume Marica, funzionari e mercanti turchi si stabilirono nelle grandi città della Macedonia, come Skopje e Bitola, mentre l’annessione delle regioni albanesi e bosniache favorì l’arrivo di soldati di guarnigione e contadini, fenomeno che si protrasse nei secoli XV e XVI. Gli immigrati turchi giungevano dalla Tracia e percorrevano la valle della Marica, diffondendosi in Bulgaria, Macedonia e Albania. Centinaia di nuovi villaggi furono fondati intorno ai conventi dei Sufi (tekke), mentre ordini religiosi quali i Bektashi e i Mevlevi predicavano un islam eterodosso nelle aree rurali.

I primi arrivati, gli yürük di Naldoklen, giunsero accompagnati da donne e bambini, stabilendosi sul massiccio di Šarplanina, al confine tra Albania, Kosovo e Macedonia: nel XVII secolo erano ben 50.000, parecchi se si pensa alla minuscola entità delle popolazioni balcaniche. Un altro gruppo nomade erano gli yürük di Tekirdag, che alla fine del XVI secolo ammontavano a 100.000 unità, ma si stabilirono soprattutto in Bulgaria. Le montagne di Dibra – la vasta regione, oggi albanofona, che include l’attuale Albania nordorientale e la Macedonia occidentale – furono colonizzate dagli yürük di Kodjadjik, incaricati di vigilare sulla sicurezza dell’arteria che collegava la Rumelia all’Albania. Non a caso, nell’area è assai diffuso il cognome Koxha, traslitterato secondo la grafia albanese. I defteri ottomani relativi al 1410 registrano lo stanziamento in Albania di coloni espiantati dalle regioni anatoliche di Sarukhan, Kodja-ili e Djanik, cui si aggiunsero gli esiliati di Konya, detti konici (come non pensare al grande intellettuale albanese d’inizio Novecento, Faik Konica?). Gli yürük vennero dislocati anche sulle montagne del Pindo e dell’Albania meridionale, particolarmente adatte al loro stile di pastorizia transumante. E dopo la presa di Scutari, nel 1479, la città fu ripopolata di famiglie turche e arabe – si pensi al cognome scutarino Harapi, che in albanese significa “arabo”.

E’ infatti l’analisi dei cognomi e dei toponimi albanesi a riservare le maggiori sorprese, squarciando il velo su scorci della Storia che l’assenza di fonti documentarie abbandona nella più totale oscurità. A parte i patronimici diffusi in tutti i paesi islamici – come Ibrahimi, Mustafaj, Idrizi, Mehmeti, Alia, Ramazani, Bajrami, etc. – sono i cognomi di matrice “etnica” a suscitare particolare interesse: Turku, Tartari, Pasha, Basha (sindaci ottomani), Dervishi (mistici iranici), Bekteshi (setta islamica sciita), Dizdari (guardie turche delle fortezze), Mersini (nome di una città turca), Çarçani (nome di una tribù uigura), Topalli, Kokomani, Kokalari, etc., sono epiteti che non rievocano soltanto un influsso culturale e religioso, bensì la presenza in carne ed ossa dei popoli della steppa.

Lo stesso può dirsi della curiosa toponomastica albanese, che testimonia la vicenda di incredibili migrazioni attraverso pianure e deserti dell’Asia centrale, concluse dallo stanziamento sui massicci calcarei dell’Adriatico orientale. Così troviamo i villaggi di Gume e Guman (gümele significa “alpeggio”, “capanna dei pastori” in turco); Otllak (“pascolo” in turco”); Kutalli (kutal significa collina in turco-orientale); ben cinque villaggi di nome Turan; una montagna chiamata Tartar e un villaggio chiamato Tartaj; e poi villaggi di immigrati quali Langozaj (Langoz è una città della costa turca del Mar Nero), Çizmeli (città della Turchia orientale); Hallula (città della valle dell’Eufrate); Helshan (villaggio della Turchia orientale); Mamurras (Mamur è una fortezza della Turchia mediterranea); Babru (una città dell’Afghanistan meridionale); Qibik (Kibik è una città della Russia meridionale); Kurdari (“curdi”); Gojan (i goyani sono una delle principali tribù curde); Kangarem (i kangari erano un popolo nomade di cui si persero le tracce nel XVI secolo); Mukaj (nelle lingue iraniche e in osseto, muka significa “clan”, “famiglia”); Yzberish (üzber significa “uzbeco”); Dollan e Dolanak (il dolan è un dialetto uiguro parlato sia nello Xinjiang sia in India e in Iran). A complicare la situazione si aggiunge la stessa identità del popolo albanese, misteriosamente mutata proprio durante l’occupazione ottomana. Gli albanoi o arbanoi, citati per la prima volta dalle fonti bizantine a metà del secolo XI, scomparvero dai successivi documenti relativi alle regioni dell’odierna Albania. L’etnonimo a radice arb- si ritrova soltanto nelle zone dove gli emigranti cercarono scampo dall’invasione turca, ma soprattutto dalla povertà, come gli arbëreshë nell’Italia meridionale, gli arvanites in Grecia, gli arbanasi in Dalmazia. Nei secoli XVII e XVIII, in Albania si verificò una radicalizzazione del tribalismo e vennero a crearsi le categorie etno-linguistiche di gheg (nel Nord) e tosk (nel Sud), mentre andava profilandosi la nuova identità “skipetara” (shqipëtar in albanese), dove il suffisso -ar rievoca una matrice prettamente turca (kazhar, tartar, seldjuklar, ozbeklar, kazaktar, bashkortar, avar, magyar, bulgar, tocar, balkar, tyvalar, salar, azer). Nessuno studioso, ad oggi, riesce a spiegare come, quando e perché sia avvenuta la trasformazione degli albanoi in schipetari.

Sia come sia, i dati del censimento albanese del 1930 riservano risultati sorprendenti: nonostante il virulento nazionalismo schipetaro sviluppatosi alla fine del XIX secolo fosse riuscito ad “albanesizzare” decine di migliaia di greci e valacchi, ben 20.000 cittadini si dichiararono orgogliosamente “turchi”. Era il canto del cigno degli ultimi ottomani coscienti di esserlo, poiché il comunismo avrebbe “convinto” chiunque vivesse sul suolo della Repubblica Popolare d’Albania a sentirsi puramente albanese. Ancora oggi, se qualcuno nomina per distrazione o su richiesta di un intervistatore le proprie origini turche, viene zittito dagli astanti albanesi: “ma cosa importa? Parliamo tutti albanese, quindi siamo albanesi”.

Bibliografia:

AA.VV., The Encyclopaedia of Islam, Vol. I, Londra, 1960

KYRRIS, K.P., Turkey and the Balkans, Atene, 1986

LAPIDUS, I.M., A History of Islamic Societies, Cambridge, 2002

MALCOM, N., Kosovo, a Short History, Londra, 2002

McCARTHY, J., I turchi ottomani dalle origini al 1923, Genova, 2005

SEDLAR, J.W., East Central Europe in the Middle Ages, 1000-1500, Washington, 1994

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