La ‘conquista’ cinese dell’Africa. Nel corso dell’ultimo ventennio, Pechino ha avviato una vera e propria colonizzazione economico-finanziaria del Continente Nero. Di Roberto Roggero.

Una foto emblematica.

Il fine rimane lo stesso, cambiano i mezzi. Oggi la colonizzazione non si porta più avanti con eserciti, navi e aerei, come si stanno sforzando di fare gli Stati Uniti in Medio Oriente, per altro senza apprezzabili risultati, ma con la potenza dell’economia e degli investimenti e, in questo senso, la Cina pare essere maestra incontrastata, seguita da Russia e Giappone.

Fra i metodi oggi più ricchi di risultati, soprattutto dal punto di vista della strategia cinese, hanno notevole valore le fonti di approvvigionamento energetico e del reperimento di materie prime, a partire dall’estrazione e fino alla realizzazione di infrastrutture per trasformazione, lavorazione, raffinazione e distribuzione. Dalla costruzione di scali marittimi con sorprendenti capacità di portata e movimentazione, a ponti, dighe, strade, collegamenti ferroviari, scambi commerciali e, alla base di tutto, grandi operazioni finanziarie.

Nel solo anno 2019, il volume del commercio cinese in Africa ha movimentato oltre 105 miliardi di dollari, con un incremento del 3% su base annua, e con un investimenti per una cifra complessiva che supera abbondantemente i 2.000 miliardi di dollari.

A livello planetario, oggi la Cina è il primo creditore assoluto e, al tempo stesso, partner commerciale, di numerosi Paesi della fascia subsahariana, nei quali sono presenti aziende cinesi, con il 90% di queste che non ha partecipazione statale. Pechino esercita quindi una massiccia influenza nel Continente Nero, tanto che il nuovo African Continental Free Trade Area Act, in vigore dallo scorso giugno, ha avuto un sostanziale sostegno da parte del governo cinese, che punta all’abbattimento dei dazi doganali, aumenti produttivi, ulteriori e sempre maggiori investimenti in svariati settori, nel quadro di un progetto di integrazione economica in atto già da diverso tempo. D’altra parte, la posta in gioco è immaginabile, se si considera che questa formula riguarda oltre 1 miliardo e 300 milioni di persone e ha un valore, solo stimato, che supera i 2.500 miliardi di dollari…

In sostanza, il vento che soffia da Pechino al continente africano, porta con sé una profonda trasformazione delle strutture di base, e soprattutto mira a fare dell’Africa una potenza economico-industriale “made in China”.

Attualmente, molti Pesi africani sono ancora basati su una economia di tipo manifatturiero, quasi artigianale, soprattutto in Nigeria e in Etiopia, che tuttavia rappresenta oltre il 65% delle esportazioni, e solo all’interno del continente. In questo senso, gli investimenti cinesi hanno lo scopo di automatizzare il tutto, fino a un sistema-ruota che giri da sola. Il programma ha numerosi aspetti, uno dei quali, ad esempio, è la “Belt&Road Initiative”, un piano di dimensioni inimmaginabili, per realizzare principalmente due moderne “Vie della seta”, una terrestre (SREB, o Silk Road Economic Belt) e una marittima (MSR, Maritime Silk Road), con tutto ciò che gravita intorno.

Il rovescio della medaglia

Come contrappeso, e decisamente oneroso, gli investimenti cinesi hanno fatto innalzare, a livelli esorbitanti, il debito nazionale di diversi Paesi africani, fino a superare i 150 miliardi di dollari in meno di 20 anni. Le cifre parlano chiaro: il Kenya ha ottenuto un prestito, dalla Cina, di 3,5 miliardi di dollari per la costruzione dei collegamenti ferroviari Mombasa-Nairobi, ma se non riuscirà a rifondere il debito, la penale comprende la perdita dell’amministrazione e della gestione del porto della capitale, che è stato impegnato a titolo di garanzia, e di quello di Lamu, al confine con la Somalia, che cadrebbero sotto padrone cinese per 99 anni; la RDC (Repubblica Democratica del Congo) ha richiesto un finanziamento al Fondo Monetario Internazionale per tappare i buchi dell’economia nazionale, e adesso la situazione interna è ancora più a rischio; Gibuti ha concesso, a sua volta, sempre alla Cina, di investire 15 miliardi di dollari per la realizzazione di un nuovo piano infrastrutturale, mettendo a serio rischio l’amministrazione e la gestione dello strategico porto di Gibuti. Stesso discorso per l’Azienda Elettrica Nazionale e l’aeroporto di Lusaka, in Zambia, con un debito ormai al collasso, e ci sono molti altri esempi.

Nei fatti, il debito accumulato dai governi dell’Africa subsahariana ha oltrepassato i 700 miliardi di dollari, mentre il Prodotto Interno Lordo rimane a livelli molto bassi, e diversi analisti internazionali vedono già una prossima invasione planetaria di prodotti cinesi, realizzati in Africa, a basso costo di manodopera, dal momento che, nei prossimi anni, la principale forza lavoro si concentrerà proprio in Africa, per evidenti ragioni demografiche. Una trasformazione per altro non scontata, perché molto dipenderà dagli investimenti nel settore industriale, dalle dinamiche difficilmente prevedibili all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), e dalla capacità dei governi africani di promuovere politiche adeguate.

Di certo, la strategia cinese si sta dimostrando vincente, basata sulla politica del “Soft-Power”, ovvero la non intromissione diretta, di una nuova classe dirigente, negli affari interni dei Paesi africani. Lezione che l’Europa stenta ad assimilare, proponendo una vetusta visione delle reali potenzialità del continente africano, e rimanendo aggrovigliata alle difficoltà, tante volte inventate dove non ci sono, del fenomeno migratorio, causato dai conflitti che le stesse potenze occidentali fomentano, con l’illusione di vestire i panni del gaudente fra i litiganti esauriti.

Oggi, l’Africa è la regione del mondo che ha manifestato la maggiore urbanizzazione, e naturalmente la Cina non è rimasta a guardare e ha approfittato immediatamente della situazione, guardando avanti e ponendosi, saggiamente, obiettivi anche e soprattutto a lungo termine.

Il Ventennio cinese

Fin dal 2000, Pechino si è fatta avanti promuovendo il “Forum on China-Africa Cooperation”, che ha dato il via alla colonizzazione incruenta del Continente Nero. La Cina ha compiuto passi da gigante in tutti i settori che lasciavano intravvedere possibilità. Come già detto, dal vasto e articolato campo materie prime, alle infrastrutture, agli scambi commerciali e alle operazioni finanziarie, in una silenziosa, ma costante e capillare penetrazione, della quale uno dei principali aspetti rimane comunque la strategia dello sfruttamento.

Per quanto riguarda le materie prime, la Cina ha localizzato in Africa il territorio di reperimento di petrolio, rame, ferro, zinco e altro, per la propria economia nazionale di sviluppo e per la competizione a livello mondiale. In questo senso, i legami a doppio filo sono stati stabiliti principalmente in Sud Africa, Nigeria, RDC, Angola e Zambia. Sul piano delle relazioni commerciali ciò che serve è stato trovato, fra gli altri, in Etiopia, Kenya, Uganda e Gibuti, dove i mercati offrono uno sbocco grazie al numero di potenziali fruitori. Per quanto riguarda i piani infrastrutturali, Pechino si è rivolta a numerosi governi africani, con investimenti miliardari per la costruzione, o la ristrutturazione, di strade, dighe, ferrovie, ponti, scali marittimi, oleodotti e altro, che sono solo un passo per la movimentazione delle risorse energetiche e minerarie.

Come e dove (…il perché è evidente)

Tra il 2000 e il 2008 avevano fatto registrare un vero e proprio boom, poi hanno superato i 100 miliardi di dollari con una struttura dell’interscambio che non consentiva ai Paesi africani di ridurre la propria dipendenza cronica dalle esportazioni di materie prime che pesavano per circa il 92% del totale.

Nel 2009, gli aiuti cinesi ammontavano a circa 40 miliardi di dollari. Tre le modalità principali: donazioni, prestiti a interesse zero e prestiti in concessione. Il 42% degli investimenti cinesi era destinato ai servizi, il 30% all’estrazione dei risorse naturali, il 22% al settore manifatturiero, il 16% alle costruzioni, il 5,4% ai servizi commerciali, il 3,2% a ricerca e sviluppo. Insomma, un attacco su tutti i fronti.

Attualmente, i finanziamenti e gli investimenti in Africa, da parte della Banca di Stato Cinese, e di diverse aziende esclusivamente private, ammontano a oltre 145 miliardi di dollari, di cui 1/3 nel settore trasporti, 1/4 nell’energia, e un altro 15% nelle estrazioni minerarie. Un ultimo 1,6% è destinato a progetti di istruzione, sanità, alimentazione e ambiente. Circa 3.000 sono i progetti in atto, con oltre 200mila lavoratori addetti, prevalentemente provenienti dalla Cina e raggruppati soprattutto fra Zambia, Angola, Nigeria, Camerun, Sudan, Algeria ed Etiopia. La manodopera locale occupa invece circa 300mila lavoratori. Più o meno 10mila sono le aziende e i marchi cinesi in attività in Africa, con il 90% a capitale privato.

Nel settore delle telecomunicazioni, la parte del leone la fanno Huawei High-Tech e ZTE, con oltre una quarantina di reti attive di ultima generazione, in oltre 30 Paesi africani.

Fra il 2010 e il 2019, la fame di materie prime, la grandissima adattabilità, l’approccio del governo che può spostare centinaia di migliaia di lavoratori senza alcuna lamentela, e altri fattori, hanno contribuito all’enorme aumento della presenza cinese in Africa. Gli investimenti diretti hanno raggiunto i 32 miliardi nel 2015, soprattutto in Zambia, ricco di risorse minerarie. Inoltre, investimenti energetici (in particolare nel settore petrolifero) in Guinea, Sierra Leone e Ghana. Investimenti infrastrutturali massicci soprattutto in Africa orientale. In Sudan e in Ciad è finanziata la costruzione di aeroporti, in Mozambico di scali marittimi.

Nuove linee ferroviarie e ristrutturazione di porti sono state finanziate a Gibuti, in Libia, a Port Said in Egitto, Lagos in Nigeria. Intanto, la società petrolifera di stato dell’Angola, la “Sonangol” è già quasi totalmente controllata dalla China’s Development Bank. Operando con prestiti facilitati e linee di credito a tasso zero, la Cina sta assumendo, e in certi casi ha già assunto, il controllo dei Paesi che aiuta, generando enormi affari per le proprie aziende, con un sistema che porta all’acquisizione del debito verso cui eroga finanziamenti. Questo quadro offre l’idea della portata politico-strategica di questo progetto a lungo termine di penetrazione sempre più capillare in un continente ricchissimo di risorse energetiche e materie prime. Sommato agli altri contesti globali, che vedono la Cina protagonista, si prospetta una vera e propria egemonia mondiale per i prossimi decenni.

Nel corso del 2020, inoltre, è previsto l’avvio di voli diretti fra Cina e Marocco, sia su linee passeggeri, che soprattuto commerciali. Un memorandum è stato ufficialmente siglato fra i due Paesi, ma è chiaro che Pechino sia interessata soprattutto al porto di Tangeri, anche se fino ad oggi si è aggiudicata “solo” i lavori del porto di Kenitra e la linea Alta Velocità Marrakech-Agadir. Ma procediamo con ordine.

L’Algeria è il terzo Paese africano per scambio di relazioni con Pechino fin dagli anni Novanta. Nel 2016 la Cina è diventata il primo fornitore dell’Algeria, che da tempo deteneva il primato per ragioni storiche e politiche: investimenti diretti, infrastrutture costruite da compagnie cinesi sul suolo algerino, l’arrivo di migranti cinesi nel paese. A novembre 2018 la Cina ha donato 28,8 milioni di dollari all’Algeria a titolo di contributo per lo sviluppo economico.

Alla Tunisia la Cina ha donato 40 milioni di dollari per sostenere lo sviluppo e l’adesione al grande progetto Belt&Road. La Cina si è impegnata nella costruzione di un ospedale universitario a Sfax, una struttura culturale-sportiva a Ben Arous e dell’Accademia di Formazione Diplomatica di Tunisi.

Anche e soprattutto in Libia, devastata dalla guerra civile, Pechino ha visto enormi possibilità, specie dopo che l’Occidente ha abbandonato gli sforzi per ricostruire il paese, in balia di conflitti tribali, terrorismo e instabilità politica. In questo contesto, anche la Libia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina per l’adesione all’iniziativa Belt&Road. Già ai tempi di Gheddaf, Pechino aveva notevoli interessi nel paese, e si era schierata con la Russia contro l’intervento della NATO. Poi, nel tentativo di proteggere questi stessi interessi, nel corso del 2011 aveva dato il suo sostegno al National Transitional Council. Nel 2018 le esportazioni di petrolio libico in Cina sono raddoppiate rispetto all’anno precedente, per un valore di 3,5 miliardi di dollari.

In Egitto, è stato accantonato il progetto con la Cina per la costruzione di una nuova capitale amministrativa a est del Cairo, con un investimento di 20 miliardi di dollari perché, secondo le autorità egiziane, il China Fortune Land Development aveva concesso solo il 33% dei ricavi del progetto, e non il 40% come richiesto. Sono più di centomila i cinesi che vivono in Egitto, e i contratti finora firmati per la partecipazione nel progetto Belt&Road arrivano a 18 miliardi di dollari. Inoltre vi sono 10 miliardi di dollari in investimenti diretti, solo per il biennio 2018–19, mentre l’anno precedente erano stati “solo” 7,9 miliardi. Dal 2017 la Cina è il maggior investitore nel Canale di Suez, tramite la China-Egypt Suez Economic & Trade Cooperation Zone.

In Sudan, la celebrazione del 60° anniversario delle relazioni diplomatiche con la Cina (febbraio del 2019) ha potenziato notevolmente le relazioni bilaterali. Già nel 2011 la Cina era il principale partner commerciale del Sudan, vera e propria porta d’entrata al continente africano. Il voto referendario che ha sancito l’indipendenza del Sud Sudan non ha cambiato la situazione e Pechino si è profondamente impegnata per garantire l’incolumità e la stabilità dei propri approvvigionamenti petroliferi, oltre a perorare la causa della rimozione delle sanzioni presso l’ONU.

Il Sud Sudan, dalla sua nascita era il Paese simbolo delle capacità di cooperazione e ricostruzione del Giappone, perché qui si è svolta la prima missione militare estera nipponica, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Oggi, nella capitale del Sud Sudan, di giapponesi non se ne vedono, mentre la presenza cinese è ovunque.

Il Kenya ha i punti di forte interesse nel porto di Mombasa, uno dei più grandi e frequentati dell’Africa orientale, dove sono state ormeggiate quasi 1.800 navi nel 2017, con un carico di oltre 30 milioni di tonnellate – molte delle quali destinate alle nazioni vicine che non hanno sbocco sul mare, fra cui Uganda, Rwanda, Burundi e Repubblica Democratica del Congo. Sin dalla sua apertura a metà del 1890, il porto si è sviluppato come punto di riferimento ed elemento chiave nello sviluppo infrastrutturale. Lo scalo marittimo è poi stato utilizzato come garanzia per il prestito di 3,2 miliardi di dollari utilizzati per costruire la linea ferroviaria di 470 chilometri Mombasa-Nairobi e, come già detto, è a rischio di cessione come indennizzo per il debito contratto con Pechino, e Exim Bank of China. Dal 2020 nelle scuole primarie del Kenya si insegnerà insegnerà il Mandarino, per migliorare la competitività del lavoro e facilitare il commercio e i collegamenti con la Cina.

Dalla Tanzania sono stati inaugurati i collegamenti aerei diretti con la Cina, e il governo ha chiesto ai cittadini di imparare lingua e cultura cinesi per incentivare il turismo e, mentre l’Europa blocca finanziamenti di cooperazione per questioni legate ai diritti umani, la Cina investe miliardi. Il presidente Jhon Magafuli è stato chiaro: “La Cina non pone condizioni nei suoi prestiti”. Il porto di Bagamoyo e il villaggio vicino sono già nelle mani dei cinesi.

In Uganda, dicembre del 2018 il ministro dell’Istruzione ha detto di voler imporre lezioni di Mandarino nelle scuole superiori destinate alla internazionalizzazione. Il governo cinese ha completato il progetto che consentirà a più di 500 villaggi ugandesi di accedere alla televisione digitale. Il progetto si chiama “Access to Satellite TV” e riguarda 10mila villaggi. Per il governo locale è fondamentale perché consente l’accesso alle informazioni, controllate però dalla Cina. Il progetto è infatti esclusivamente nelle mani della cinese StarTimes sotto la supervisione dell’ambasciata cinese di Kampala.

Gibuti è la sede della prima base militare permanente estera cinese. Dall’estate del 2017 si alternano soldati e personale civile cinese, e il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha spiegato che la base servirà anche per assicurare la protezione dei crescenti interessi cinesi. Gibuti sperava da tempo in un maggiore coinvolgimento della Cina , visto che Pechino aveva già investito nel paese circa 15 miliardi di dollari per favorire l’espansione del principale porto e delle infrastrutture collegate.

Per quanto riguarda l’Etiopia, Addis Abeba è la città che ha costruito la Cina, come ha dichiarato la CNN. La cooperazione è in tutti i settori, e nel 2020 l’Etiopia lancerà il suo primo satellite con finanziamenti cinesi. La linea di credito fornita dalla Cina per la ferrovia che collega Etiopia e Gibuti è un investimento di oltre 4 miliardi di dollari, da rimborsare in 30 anni, da somare al prestito che dal 200 la Cna ha erogato all’Etiopia, pari a 13 miliardi di dollari.

In Somalia, la Cina ha sempre sostenuto sovranità nazionale, sicurezza e integrità territoriale, come ha dichiarato il presidente Xi Jinping durante un recente incontro con l’omologo somalo Mohamed Abdullahi Farmajo. Il governo cinese ha realizzato oltre 80 progetti infrastrutturali fra cui ospedali, stadi sportivi e strade. Pechino partecipa anche al pattugliamento anti-pirateria e, in cambio, la Somalia ha autorizzato le navi cinesi a pescare nelle sue acque territoriali.

La Repubblica Democratica del Congo è uno dei paesi su cui la Cina ha più influenza. Dopo le controverse elezioni del dicembre del 2018, e dopo la sentenza della Corte Costituzionale, Pechino si è congratulata con Felix Tshisekedi per la vittoria. La Cina oggi controlla direttamente quasi tutte le miniere di rame del Paese.

In Costa d’Avorio, nel 2000, il debito nei confronti della Cina era pari a zero. Fra il 2010 e il 2015 è lievitato a 2,5 miliardi di dollari. La questione non è passata inosservata in Francia, il principale grande partner commerciale del Paese, ma lo stretto rapporto risalente al passato coloniale, è minacciato dalla presenza cinese, che ha avuto contratti per stadi di calcio, porti, impianti di acqua potabile, e Pay-Tv.

In Gambia, le relazioni con la Cina si sono ristabilite nel 2016, dopo che il presidente Adama Barrow ha riconosciuto come un errore di valutazione i legami precedenti con Taiwan, e ha ringraziato la Cina per l’aiuto e i sostegno economico. Il Gambia ha già firmato per vari progetti per il grande progetto Belt&Road.

In Ghana, ci sono già 6.500 abitanti che si sono trasferiti in Cina per motivi di studio, e questo fa del Paese africano, che ha una popolazione di 28 milioni, il primo esportatore africano di studenti. La Cina è passata dall’essere un territorio sconosciuto, a principale partner commerciale, con il commercio che è passato da meno di 100 milioni di dollari nel 2000 a 6,7 miliardi nel 2017. Un notevole investimento è poi stata la costruzione della centrale idroelettrica di Bui da parte della Sinohidro-Corporation, e dell’impianto termico Sunon Asogli da 200 megawatt, gestito dal Shenzen Energy Group.

In Angola,la Cina ha circa 23 miliardi di dollari di investimenti, cioè 23 miliardi di dollari di debito, senza considerare gli aiuti, con donazioni di oltre 14 milioni di dollari per il settore agricolo. In cambio, l’Angola ha eliminato la doppia tassazione per i cittadini cinesi. Quasi tutto, nel Paese uscito dal 2002 da una guerra civile durata 27 anni è made in China, dal nuovo aeroporto internazionale di Luanda, alla ferrovia che attraversa il territorio nazionale da est a ovest, alla nuova città di Kilamba, enorme agglomerato urbano alle porte della capitale, progettato da aziende cinesi per ospitare mezzo milione di persone. La strategia della penetrazione economica della Cina in Angola fa leva su di una precisa modalità di intervento che ha lo scopo di trasformare il Paese, finanziariamente povero ma ricco di risorse, in uno dei principali partner di Pechino.

In Mauritania, la Cina ha investimenti nel settore manifatturiero. In Niger nel settore petrolifero e del gas naturale. In Eritrea nel settore minerario, principalmente nelle miniere d’oro. Nella Repubblica del Congo (Brazzaville) la collaborazione riguarda le costruzioni civili. In Namibia le miniere di uranio. In Sudafrica le miniere d’oro, altri settori minerari, manifattura, e diversi altri campi. In Madagascar petrolio e gas naturale, nell’isola di Mauritius il settore idrico.

Colonizzazione anche digitale

Fra gli investimenti miliardari provenienti dalla Cina in Africa, un aspetto importante e da non trascurare, per il significato intrinseco che comprende, riguarda il settore delle televisioni, che si concretizza in una vera e propria colonizzazione digitale, portata avanti dal network StarTimes, in funzione soprattutto anti-europea, in particolare anti-Canal+, e, in secondo luogo, con l’obiettivo di marginalizzare il controllo locale, ovvero quello del network sudafricano MultiChoice. Anche in questo senso, il mercato apre affari colossali.

In Occidente, il marchio StarTime dice poco, per i non addetti ai lavori, eppure nel giro di pochi anni ha acquisito un potere gigantesco, specie con il passaggio dall’analogico al digitale. Dal 2006, StarTime è entrato nelle case africane grazie alla spregiudicata azione commerciale del 49enne imprenditore Pang Xinxin, già uomo chiave della televisione di stato cinese, che oggi ha riversato sull’Africa una strategia a basso costo che sta conquistando l’etere del continente, grazie al basso costo dell’offerta Pay-Tv, pari a 4 dollari, sfida vincente ai pacchetti locali che si aggirano sui 50-70 dollari.

La prima conquista è stata il Rwanda, nel 2007, con un pacchetto di 30 canali inclusi quelli locali, come Aj-JAzeera, e anche quattro canali pubblici cinesi. A seguire, Nigeria, Sudafrica, Tanzania, RDC e, sulla scia, altri 30 Paesi che si sono uniti negli ultimi 10 anni.

Di fronte allo scetticismo di alcuni governi, come Senegal e Ghana, che hanno sottolineato il pericolo, l’onda digitale cinese ha potenziato la propria influenza e, per esempio, in Zambia, ha formato una joint-venture con il network statale ZNBC, del quale StarTime ha acquisito il 60% per un periodo di 25 anni, affermando il proprio potere decisionale sulle scelte editoriali del gruppo africano, grazie ai finanziamenti concessi allo Zambia dalla Exim Bank cinese con un debito di 275 milioni di dollari. Discorso simile per la Tanzania, a sua volta indebitata con la Exim Bank. E’ quindi evidente come la strategia cinese voglia portare alla assunzione del controllo degli spazi televisivi nei Paesi africani considerati di maggior valore strategico.

Cina, FAO e Africa

In conclusione, una diramazione, per altro altrettanto significativa, della strategia di colonizzazione del Continente Nero da parte della Cina, può essere ravvisata anche nel fatto che, recentemente, la direzione della FAO, organismo delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, con sede a Roma, è stata affidata alla direzione generale cinese, nella persona di Qu Dongyu, già vice-ministro delle Politiche Agricole a Pechino, il cui mandato sarà valido fino al 2023.

Qu Dongyu ha prevalso anche sul candidato proposto dalla stessa Africa, Medi Mongui del Camerun, nonché su Ramesh Chamd proposto dall’India, Davit Kirvalidze (Georgia, e sostenuto anche dagli USA), e Catherine Geslain Lanéelle (Francia-UE). La questione ha avuto anche strascichi poco piacevoli, con accuse di corruzione di governi africani e sudamericani.

Fonti non ufficiali dell’ONU hanno commentato che a vincere non è stato tanto lo stesso Qu Dongyu, quanto il Sistema Cina, che per altro ha avuto anche un suo uomo chiave in Meng Hongwei, ex presidente dell’Interpol e successivamente espulso dello stesso Partito Comunista Cinese per accuse di corruzione e violazione della disciplina politica del PCC. Stranamente, nell’imminenza dell’elezione alla Direzione Generale della FAO, è stato annunciato il ritiro ufficiale del candidato del Camerun, pare come favore dovuto a seguito della cancellazione di 70 milioni di dollari di debito che il Paese africano doveva pagare a Pechino. Da notare che il candidato cinese aveva anche il non certo trascurabile sostegno del G77, e soprattutto dell’area sudamericana, dove la Cina oggi è partner secondo solo agli USA, con enormi investimenti nel settore agricolo, minerario e soprattutto commerciale, con il colosso COSCO nel settore marittimo-portuale, che ha già esteso la propria influenza nello scalo peruviano di Chancay, e con la China Merchants che detiene il 90% del porto brasiliano di Paranagua.

Sopra tutto, una domanda: da dove provengono gli normi capitali che la Cina investe in Africa, che attualmente superano il totale complessivo di 145 miliardi di dollari in 56 Paesi? Gli attori principali sono la export-Import Bank of China e la China Development Bank.

E’ chiaro che le relazioni Cina-Africa sono tali e talmente strette da poter fare valere ogni interesse economico, ma la vera forza di Pechino sta nella diversificazione degli interventi, capillarmente selezionati Paese per Paese.

L’Europa, in queste candidature ma anche in generale, avrebbe potuto fare molto di più per far valere altri standard, come quelli umanitari, ma la elezione di Qu Dongyu alla Direzione Generale FAO evidenzia una politica di cinese che ormai non nasconde nemmeno più un atteggiamento neocolonialista, né con la dovuta attenzione ai diritti umani, questione che la Cina non ha mai avuto particolarmente a cuore e che l’Africa, invece, soffre molto.

La nomina di un cinese alla guida di un’organizzazione delle Nazioni Unite, in particolare improntata sull’attività umanitaria, è rilevante principalmente per due aspetti. Il primo è la tradizionale complessità del rapporto fra Cina e sistema multilaterale della cooperazione internazionale, con Pechino costantemente divisa tra intenzione di integrarsi e reticenza a sottostare alle regole, considerate come troppo invasive nei confronti di certi sistemi politici. La seconda ragione è che questa nomina è stata resa possibile dal sostegno massiccio che Qu Dongyu ha avuto dagli stessi Paesi africani, e per motivi più che ovvi.

Sebbene ottenere dati sull’effettivo contributo cinese alle attività umanitarie sia difficile (soprattutto a causa della sua reticenza a rendere i movimenti finanziari alle organizzazioni internazionali), il Financial Tracking Service (FTS) dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (UN-Office for the Coordination of Humanitarian Affaris, UNOCHA) ha rilevato un rapido aumento negli aiuti da parte di Pechino: mentre nel periodo 2004-2009 la Cina ha stanziato in media solo 5,8 milioni di dollari l’anno per attività umanitarie, tra il 2010 e il 2015 questa cifra è salita a circa 43 milioni. Questione di convenienza politica e commerciale.

Lo stesso può essere osservato più in generale negli investimenti cinesi per gli aiuti all’estero, che non comprendono solo spese umanitaria, ma anche aiuti allo sviluppo e progetti a lungo termine. Anche in questo caso, un aumento della spesa cinese tra il 2003 e il 2015 da 631 milioni a 3 miliardi di dollari. In ogni caso, i numeri si mantengono sempre al di sopra della media di un decennio fa, denotando come l’impegno umanitario cinese sia cresciuto, e possa essere ormai comparabile con quello di altri Paesi occidentali. Tuttavia, la Cina rimane comunque un attore relativamente modesto nel panorama umanitario globale, ben distante dai maggiori donatori (USA e Commissione Europea), ma anche da Paesi occidentali con capacità in termini di PIL ben inferiori a quelle cinesi. La Cina, attualmente, non compare nemmeno tra i primi 20 donatori a livello globale, il che la rende ancora marginale nel settore.

Tuttavia, Pechino riesce a presentarsi come attenta alle questioni umanitarie, agli occhi dei diversi Paesi africani, soprattutto per il suo carattere misto di super-potenza economica e Paese in via di sviluppo.

La questione umanitaria, per la Cina, rimane basata sulla politica “dei cinque no”: no all’interferenza nei percorsi nazionali di sviluppo; no all’interferenza negli affari interni; no all’imposizione del volere cinese sui Paesi africani; no alla politicizzazione dell’azione in Africa; no alla ricerca di tornaconto personale. Per quanto questo approccio sia più propagandistico che reale, denota una netta contrapposizione al classico approccio multilaterale dell’Occidente.

Se da un lato l’aumento dell’impegno umanitario cinese cela delle motivazioni economiche, una ragione altrettanto importante sembra essere una strategia politico-diplomatica. Offrendo assistenza umanitaria a determinati Paesi africani, la Cina riesce ad assicurarsi lealtà politica che si traduce in supporto alle iniziative economiche e commerciali, come è avvenuto nel caso dell’elezione del Direttore Generale della FAO.

Nell’applicare tale strategia, l’obiettivo dell’azione cinese nei confronti dei Paesi africani più bisognosi, è di creare una maggiore stabilità per due propositi fondamentali: uno commerciale, cioè avere un partner affidabile per gli investimenti; l’altro di sicurezza, poiché un Paese economicamente florido e non funestato da fame e povertà, è più sicuro per investimenti e iniziative commerciali.

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