La realtà sulle ‘foibe’ e sull’esodo giuliano-dalmata. Di Fabio Bozzo.


Il 9 febbraio 2018, presso il Teatro della Gioventù di Genova, la nuova Giunta regionale ligure (espressione della vincente coalizione di centrodestra) ha celebrato il
Giorno del Ricordo con una cerimonia solenne e successiva conferenza storica. Nel corso dell’evento hanno parlato ad un vasto pubblico Claudio Eva, presidente del comitato genovese dell’Associazione Venezia Giulia Dalmazia, rappresentanti regionali e nazionali della stessa Associazione ed il professor Giulio Vignoli, storico e saggista di fama. Particolare soddisfazione umana e politica è stata data infine dalla massiccia presenza delle massime autorità regionali, ovvero Giovanni Toti, Presidente della Regione Liguria; Sonia Viale, Assessore alla Sanità; Francesco Bruzzone, Presidente del Consiglio Regionale; Alessandro Puggioni, Giovanni De Paoli e Stefania Pucciarelli, Consiglieri regionali leghisti ed Alessandro Piana, Capogruppo della stessa Lega Nord. Durante l’esposizione degli eventi storici i relatori hanno affrontato tutti i temi del complesso argomento, dalla natura geofisica delle foibe, alle cifre dello sterminio ‘titino’ e del conseguente dell’esodo giuliano-dalmata. In tale contesto è da sottolineare l’assoluta imparzialità dei relatori, anche di quelli politicamente schierati, nel rispetto e con lo scopo (pienamente conseguiti) di donare uno spiraglio di luce e di verità ai tragici fatti in discussione.

Foibe e pulizia etnica: una storia da conoscere.

Nel settembre 1943, con la caduta del fascismo, le zone slovene, attualmente adiacenti al nostro confine orientale e quelle costiere croate, che all’epoca erano amministrate dal regno d’Italia, caddero in uno stato di quasi anarchia. In tale contesto, le popolazioni costiere istriane, giuliane e dalmate (genti di nazionalità italiana e lingua veneta) si trovarono alla mercé degli agguerriti e crudeli partigiani comunisti del leader Josip Broz Tito (1892-1980). Questi, approfittando dell’occasione, si diedero anima e corpo a quella che ormai da decenni era il loro progetto ultimo: la totale pulizia etnica nei confronti delle popolazioni italo-venete. Tale odio razziale, abbondantemente esacerbato dalla contaminazione ideologica comunista, aveva radici lontane e molti colpevoli. Se è vero, infatti, che, durante il Ventennio, il regime fascista molto fece per “italianizzare” le terre a lui sottoposte (anche con metodi come quello di vietare le lingue slave e costringere gli abitanti al cambio dei cognomi dal suono non abbastanza latino), è altrettanto vero che ciò che, successivamente, i ‘titini’ superò di gran lunga ogni forma di vessazione e violenza.

Non appena l’autorità di Roma venne meno, infatti, i partigiani comunisti si scatenarono contro i civili italiani, utilizzando per le loro esecuzioni di massa sia metodi classici come fucilazioni e impiccagioni, sia l’infoibamento, cioè la “precipitazione delle vittime nelle grotte carsiche”. Le foibe sono delle cavità tipiche delle zone interessate, ovvero delle vere e proprie caverne verticali scavate ed erose dall’acqua e poi prosciugatesi o ospitanti torrenti sotterranei: enormi voragini a cono inverso, bui e profondi anche 30 metri. In tali cavità vennero scaraventati migliaia di uomini, donne e bambini istro-dalmati, colpevoli soltanto di essere ‘italiani’ (e non, come per anni ripeté la vulgata comunista, in quanto ‘fascisti’). Lo sterminio che, come si è detto, ebbe inizio nel 1943, si protrasse in maniera disorganizzata fino alla primavera del 1945. In quella data, con il collasso finale delle potenze dell’Asse, si assistette ad una vera e propria gara da parte degli eserciti vincitori per strappare all’Italia più territorio possibile. Nella zona a noi più vicina, ovvero la regione istro-friulana, i protagonisti di questa “corsa” furono i partigiani di Tito e le truppe neozelandesi del generale Bernard Freyberg (1889-1963), provenienti dal Veneto. Quando le rispettive truppe vennero a contatto, schiacciando o mettendo in fuga ciò che restava delle armate dell’Asse, i ‘titini’ avevano ormai occupato tutta l’Istria e la città di Trieste. Se oggi i triestini non hanno subito la sorte dei loro fratelli più orientali e la città è ancora italiana lo si deve proprio a Freyberg, il quale (coperto politicamente da Churchill) inviò un ultimatum ai comunisti jugoslavi: abbandonare Trieste o essere presi a cannonate: minaccia quest’ultima che, dopo circa un mese di trattative, indusse i ‘titini’ ad alzare i tacchi.

Ma la salvezza in extremis di Trieste non avrebbe alleviato le sofferenze di coloro i quali rimasero, ormai è geopoliticamente corretto dirlo, ‘oltre Cortina’. Con il Trattato di Parigi del 1947, l’Italia perdette definitivamente tutti i suoi territori in Dalmazia ed in Istria. Tali regioni, se è vero che ospitavano in larga parte popolazioni croate e slovene, erano anche la patria di circa 400.000 nostri connazionali per i quali si aprì uno dei più terrificanti capitoli. Liberi di muoversi senza impedimenti bellici o, tanto meno, legali, i comunisti di Tito si scatenarono sui civili con una metodicità ben più spietata di quella del periodo 1943-’45. Ne è la prova che, negli anni tra il 1945 ed il 1948, lo sterminio e l’esodo vennero portati a termine. Le cifre, come spesso accade in queste tragedie, sono assai difficili da stimare. Ciononostante, il tetro conto che più si avvicina alla realtà parla di 20.000 civili assassinati (nelle ‘foibe’, nelle loro case o nei campi di concentramento jugoslavi) e di 350.000 esuli. Questi ultimi fuggirono in massima parte in Italia, mentre nuclei minori si rifecero una vita negli USA, in Canada ed in Australia.

Sebbene di dimensioni minori rispetto ad altri (i tedeschi espulsi da Prussia e Slesia furono dieci milioni) si trattò di un esodo drammatico. Privati di ogni bene, ad eccezione di quelli che potevano caricare a mano, i giuliano-dalmati vennero incolonnati in tristi carovane e condotti a piedi verso il confine. Molti, specie tra i più anziani come tra i più giovani, non sopravvissero alle fatiche ed ai rigori del clima. Ma per queste persone le traversie non finirono neanche in Italia, da loro ritenuta, con eccesso di logica, la meta della salvezza. Infatti, il Partito Comunista Italiano, all’epoca dominato da Palmiro Togliatti (1893-1964), temette, a ragione, che la testimonianza dei profughi potesse gettare un barlume di verità sugli orrori del ‘socialismo reale’. E per tale ragione, la propaganda del Partito Comunista Italiano diede fiato alle trombe, bollando gli ‘esuli’ alla stregua di elementi ‘fascisti’ ex occupanti. Per un leader cinico come Togliatti l’esercizio della menzogna non comportò alcuno sforzo. Ricordiamo che, durante la Guerra Civile Spagnola (1936-1939), il Migliore dei compagni si distinse come delatore ai danni di trozkysti ed anarco-comunisti, elementi poi assassinati dai comunisti ortodossi agli ordini di Mosca. Ed anche durante il suo esilio dorato in URSS, Togliatti ebbe modo di distinguersi facendo fucilare molti dei suoi “compagni”, in modo da eliminare possibili, futuri concorrenti. Sotto la guida di un tale losco figuro, i comunisti italiani scatenarono tutta la loro macchina diffamatoria contro gli esuli istriani in fuga. Sui giornali e manifesti comunisti vennero riportate le peggiori bugie. Si disse che la cessione a Tito delle terre in Istria e Dalmazia era una forma di giustizia e che al contrario la vera ingiustizia fosse stata la cacciata dei titini da Trieste ad opera degli anglosassoni. Uno degli slogan preferiti dai rossi fu: “In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi abbiamo i banditi giuliani”. Ma i comunisti non si fermarono alle parole. Quando i treni carichi di esuli, di solito partiti da Pola o da Fiume/Rijeka, entrarono in Italia, i loschi figuri della sinistra organizzarono i loro “comitati d’accoglienza” nelle stazioni italiane. Tali accoglienze erano composte da striscioni aventi scritti i peggiori insulti verso i disperati in fuga, lancio di sassi e pomodori (evidentemente già allora di comunisti affamati ce ne erano pochi) e tentativi d’aggressione, tali che l’esercito dovette più volte scortare i treni verso stazioni minori e quindi più tranquille. Il colmo della vergogna si raggiunse a Bologna, allora come oggi uno dei principali snodi ferroviari del Nord. In tale città, il 18 febbraio del 1947, giunse un treno merci carico di profughi. Per cominciare i comunisti locali organizzarono una folla talmente aggressiva che le forze armate dovettero circondare il treno ed impedire ai suoi passeggeri di scendere, onde evitare il linciaggio. Contemporaneamente la feccia socialista impedì alla Croce Rossa di portare agli esuli i beni di prima necessità che erano stati destinati allo scopo. Il massimo della loro dignità i comunisti lo toccarono quando, tra una sassaiola e l’altra contro i vagoni, rubarono il latte destinato ai neonati, molti in stato di disidratazione, e platealmente lo versarono sui binari. Dulcis in fundo i sindacati di sinistra (che allora come oggi pensavano a far politica e non ai diritti dei lavoratori) annunciarono ufficialmente che se i profughi fossero stati sfamati a Bologna la città sarebbe stata colpita dallo sciopero generale. A quel punto le autorità, onde evitare una possibile escalation di violenze, fecero ripartire il treno per Parma, nella quale i giuliano-dalmati poterono essere sfamati e scaldati, per poi essere temporaneamente ospitati in una caserma a La Spezia.

In seguito e dopo molte fatiche i 350.000 esuli si rifecero una vita, come detto i più in Italia. Il tempo ha guarito le loro ferite fisiche, mentre il fallimento del comunismo ha permesso alle forze di conservatrici e liberali (non proprio “cuor di leone” quando c’è da fare battaglia culturale coi compagni) di dare la giusta prospettiva alle loro sofferenze. Dal 2004, infatti, il Governo di centrodestra ha istituzionalizzato la Giornata del Ricordo, durante la quale tali orrendi fatti vengono finalmente dibattuti e divulgati. Ma tale traguardo, per quanto importantissimo, non deve farci abbassare la guardia: anche se il comunismo è finito nella pattumiera della Storia, i comunisti restano quelli di sempre. In concomitanza con il Giorno del Ricordo del 2016, anno in cui il presente articolo è stato scritto, il TG3 (diretto da una “signora” il cui unico merito professionale è quello di portare il cognome di suo padre) ha bellamente e semplicemente evitato di parlare di una ricorrenza nazionale, preferendo fare un lungo servizio sul Festival di San Remo. Nello stesso giorno il Sindaco di La Spezia (del PD renziano) ha ritirato la concessione della biblioteca civica, con sole 24 ore di preavviso, ad una commemorazione organizzata due settimane prima. Per quanto riguarda il TG3 la migliore risposta la sta dando l’indice d’ascolto, che vede quel telegiornale d’accatto scemare i propri ascoltatori al pari della sua già scarsa dignità. Sul fattaccio di La Spezia, invece, chi scrive ha la soddisfazione di complimentarsi con gli organizzatori, che hanno svolto l’evento in piazza, dandogli così maggior risalto mediatico.

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