Vlad l’imperatore. ‘Impalatore’, tiranno o eroe? Di Elena Percivaldi.

Stragi attribuite a Vlad.
Vlad Tepes

 

 Nei Paesi tedeschi era il simbolo del demonio, nell’Est era invece considerato un grande sovrano degno di riverenza. Quale la verità?

Per l’Europa centrale germanofona, cattolica o protestante che fosse, era il simbolo del tiranno per eccellenza. Nell’est, Russia Romania e Balcani, ossia regioni a maggioranza ortodossa dove la linguadi culto e della cultura era lo slavone, ma anche il greco e il turco, fu invece percepito come “un grande sovrano che ispirava la groza, il timore reverenziale, alla pari di Ivan Groznyi, Ivan il Terribile, lo zar del XVI secolo”[1]. Qual è la verità su Vlad III di Valacchia, per il volgo Dracula, passato alla storia col truce soprannome di impalatore e accusato di essere un vampiro? Il contesto storico è quello della polveriera balcanica, ovvero le zone di confine tra i territori ormai ottomani e gli ultimi brandelli di Europa cristiana. Vlad nacque a Sighişoara il 2 novembre 1431. Non ne ripercorreremo le vicende biografiche[2] . Qui basterà ricordare che trascorse la gioventù ammirando le gesta del padre Vlad II (ca. 1390 –1447), che si barcamenava su un trono tutt’altro che saldo, stretto tra l’impero turco e i domini cattolici della corona ungherese, dei quali era vassallo e di cui rappresentava il baluardo meridionale. Gran combattente, Vlad II apparteneva alla cerchia dei membri dell’Ordine del Dragone (Societas draconistarum), fondato, pare, nel 1408 da Sigismondo d’Ungheria a scopo politico: garantirsi il sostegno della nobiltà e combattere sia l’eresia hussita che la minaccia turca. Il simbolo era un drago morto e capovolto su se stesso, che i cavalieri portavano al collo a mo’ di pendaglio mentre sull’armatura indossavano un mantello rosso con una mantelletta verde, “a raffigurare la pelle del mostro e il suo ventre insanguinato”[3]. Per la sua appartenenza all’ordine, assunse il soprannome di “Dracul” o “Draculea”: appellativo, dunque, dal significato niente affatto negativo né sinistro, visto che stava a indicare semplicemente un membro dell’Ordine del Drago. Quando fu ereditato dal figlio divenne di fatto il suo alias, tanto più che anch’egli era entrato nell’Ordine nel 1431. Tuttavia la fama sanguinaria che già in vita lo circondava contribuì a far slittare il significato da quello di “figlio di Dracul” a quello, che tutti popolarmente conoscono, e che fa “volutamente” confusione con il vocabolo romeno dracul che vuol dire “il diavolo”[4]. La Valacchia nel XV secolo era un paese tutt’altro che povero, al quale non mancavano uomini né bestiame, né materie prime come il sale o il legno, né prodotti come i cereali o il vino. La selvaggina, inoltre, abbondava nelle immense foreste che si estendevano dal Danubio alla Transilvania e sulle strade era tutto un traffico di tessuti e di spezie. Per controllare meglio il paese, i principi valacchi costruirono le loro residenze all’interno delle città. Vlad II scelse Bucarest, che sarebbe diventata in seguito la capitale del principato. Nella difficile situazione politica, il piccolo Vlad finì ostaggio col fratellino Radu del sultano e fu educato all’arte della guerra e ai dettami della religione musulmana. In questo contesto poté conoscere molto da vicino usi e costumi, bellici e non, dei turchi, arrivando a padroneggiare la lingua turca e ad adottarne l’abbigliamento. Anche in seguito sarà l’unico principe occidentale a vestire il cafetano anziché gli abiti in voga preso le corti europee. L’avvenente Radu, che era soprannominato appunto cel frumos, ossia “il bello”, entrò invece ben presto nelle simpatie del figlio del sultano, il futuro Maometto II, diventandone l’amante. Poco dopo il disastro cristiano di Varna e dopo l’uccisione del padre, alla fine del 1448 il giovane Vlad varcò il Danubio alla guida di un esercito datogli dal sultano. Con un voltafaccia si mise sotto la protezione del potente Giovanni Hunyadi, che lo portò con sé a Buda (dove conobbe suo figlio Mattia Corvino, 1458-90) e lo istruì per cinque anni nell’arte della guerra. Vlad fece pratica in svariate incursioni contro i Turchi e rappresaglie tra principi cristiani, in primis contro i feudatari alleati con l’imperatore Federico III d’Asburgo, spina nel fianco alla corona d’Ungheria. E si distinse durante l’assedio di Smederevo (1454), in cui l’armata ottomana fu fatta a pezzi. Il suo coraggio gli valse come ricompensa la restituzione dei feudi transilvanici che erano stati di suo padre: le cittadelle di Almas e Făgăraş, sulle falde dei Carpazi meridionali, tra la nativa Sighişoara e l’importante centro commerciale di Braşov, la Kronstadt dei mercanti sassoni. E da qui si preparò a riconquistare il trono. La situazione non era facile. I turchi avevano conquistato Costantinopoli e il loro alito soffiava forte lungo le irte gole dei Carpazi; i nobili si comportavano in maniera ambigua e i mercanti sassoni, dopo un’iniziale apertura protezionistica, avevano subìto dure rappresaglie. Queste città popolate da sassoni, fondate un secolo e mezzo prima sotto la spinta del Drang nach Osten che spingeva i germanici a colonizzare nuove terre, erano fiorenti e potentissime grazie alla fitta rete di commerci che avevano saputo instaurare lungo il Danubio, dalla Germania all’Impero bizantino. Proprio in questi anni iniziò anche a diffondersi la sua sinistra fama come principe sanguinario e violento. La colpa è del pamphlet in lingua tedesca intitolato Storia del voivoda Dracula, pubblicato nel 1463 a Vienna dallo stampatore e libraio Ulrich Han. Il testo conobbe un successo straordinario, tanto che i sei fogli con tanto di ritratto di Vlad in copertina furono copiati, negli anni successivi, svariate volte e l’eco delle atrocità ivi contenute fece il giro d’Europa influenzando le menti di molti uomini dotti. Così, Thomas Ebendorfer nella Kaiserkronik (1464), il poeta Michael Beheim autore della ballata Su un tiranno chiamato Dracula, voivoda della Valacchia, e poi ancora, Theodor Zwinger nel Theatrum viae humanae (1571) che lo addita a esempio di principe malvagio nel capitolo dedicato alle crudeltà compiute dai sovrani verso i loro sudditi, e Johann Fischer nel poema Flőhhaz (1573) che ne rievoca un macabro banchetto sotto i cadaveri dei nemici impalati. Proprio il supplizio dell’impalamento dovette impressionare visto che si trattava di un supplizio da noi praticamente ignoto. Vlad lo aveva infatti appreso dai turchi e lo utilizzò per punire i suoi nemici, tanto che finì per essere soprannominato “Ţepeş” (“impalatore”, in romeno) dai suoi detrattori in patria e persino, in seguito, dagli stessi turchi. Come noto, l’impalamento può avvenire in due modi. Il primo consisteva nell’uso di un’asta appuntita che trafiggeva il condannato all’altezza dell’addome per poi issarlo in alto. In questo caso, la morte era immediata o sopraggiungeva entro poche ore. Più lunga l’agonia causata dal secondo metodo, che prevedeva l’uso di un’asta arrotondata all’estremità e cosparsa di grasso, che veniva inserita nel retto della vittima che poi veniva issata in posizione eretta. Il peso del corpo faceva penetrare l’asta all’interno senza però ledere organi vitali, cosicché la sopraggiungeva anche dopo due/tre giorni. Gli aneddoti si sprecano: nel 1459 a Braşov trentamila persone sarebbero state impalate; l’anno dopo a Sibiu stessa sorte per altre diecimila, i corpi cosparsi di miele per attirarvi gli insetti e rendere più atroce il supplizio; poi nel 1461 ai tre ambasciatori del sultano che in sua presenza non si tolsero il turbante perché rappresentava il simbolo della loro religione, sarebbe stato inchiodato il copricapo sulla testa. L’obiettivo principale di Vlad però continuava ad essere il Turco, contro cui procedeva secondo la tattica della terra bruciata, saccheggiando e devastando i villaggi in modo da impedire i rifornimenti. Le imprese venivano poi dallo stesso Vlad riferite con puntiglio a Mattia Corvino come bollettini di guerra. Ma più passava il tempo, più lo scontro campale sembrava inevitabile. Nella primavera del 1462 Maometto II radunava un esercito composto da un numero compreso tra i 60.000 e gli 80.000 uomini, azione alla quale il voivoda rispose convocando alle armi tutti gli uomini validi dai dodici anni d’età in su: in tutto circa 30.000 uomini. E si preparò a resistere all’attacco. Il 4 giugno l’esercito turco passava, pur con gravi perdite, il Danubio. Ma una volta di qua dalla riva, lo spettacolo che Maometto II si trovò di fronte fu desolante: una pianura sterminata di terra bruciata, senza possibilità di rifornirsi, e sotto il sole cocente, al punto che secondo un testimone le armature potevano servire a cuocere il kebab. Intrappolato in quell’inferno, sottoposto a continue operazioni di logoramento, il potente esercito della Sublime Porta sembrava spacciato. Il colpo di grazia sarebbe dovuto cadere sul capo di Maometto II la notte tra il 17 e il 18 giugno, quando Vlad piombò di sorpresa sul campo con ottomila uomini. Nei giorni precedenti il voivoda, travestito da mercante turco, era riuscito ad avvicinare l’accampamento e a localizzare le tende dove riposavano il sultano e il suo visir. Presi alla sprovvista, i turchi resistettero ma Vlad, nel caos generato dalla battaglia, sbagliò tenda e fallì l’obiettivo. Costretto alla fuga, riuscì a riparare con buona parte dei suoi tra le foreste. L’esercito ottomano poteva avanzare verso Târgovişte, ma quando vi giunse, Maometto II e i suoi trovarono solo i resti dell’ambasciata trucidata il febbraio precedente: i cadaveri, impalati, erano stati lasciati a marcire sul posto. Nel novembre 1462 giunsero nelle mani di Mattia Corvino tre lettere firmate da Vlad. Contenevano parole compromettenti e la chiara intenzione di venire a patti coi Turchi. Erano dei falsi fabbricati ad arte. Il sovrano le credette autentiche e lo fece arrestare nel castello di Visegard. Tra lì e Buda sarebbe rimasto per ben tredici anni, mentre sul suo trono – spalleggiato dai turchi – finiva nientemeno che il favorito di Maometto II, Radu il Bello, fratello di Vlad. Fu liberato nel 1475, sotto la spinta di una nuova crociata voluta dal neo pontefice Sisto IV: non per pietà, ma per sfruttarne l’abilità militare. Mattia non ebbe a pentirsene, se è vero che in pochissimo tempo Vlad conquistò Srebrenica, Kuslat e Zvornik “facendo a pezzi con le sue mani i corpi dei turchi catturati”[5]. Siamo così giunti alla fine della storia. Alla fine del 1476 Basarab III, spalleggiato dai turchi sconfisse in battaglia l’esercito di Vlad, che a quanto riporta il legato del duca di Milano a Venezia Leonardo Botta fu “tagliato a pezzi” insieme a quattromila uomini. Ma su come effettivamente morì le fonti sono discordanti. Per lo storico austriaco Jakob Unrest (1430-1500)[6] e per quello polacco Jan Długosz (1415-80)[7], contemporanei agli avvenimenti, Dracula fu vittima di tradimento: un turco, fatto entrare nell’accampamento da un uomo vicino al voivoda, lo prese alle spalle e gli tagliò la testa con un colpo di spada. Morto Dracula, i suoi uomini si persero d’animo e furono sconfitti dagli avversari. L’ambasciatore russo in Valacchia Fedor Kuricyn, invece, fornisce questa versione dei fatti: “I turchi attaccarono il suo paese e cominciarono a conquistarlo. Dracula li attaccò e li mise in fuga. Il suo esercito li uccideva senza pietà, e con gioia Dracula salì su una collina per vedere meglio i suoi che massacravano i turchi. Si allontanò così dal suo esercito e dai suoi uomini. Prendendolo per un turco, uno di essi lo colpì con una lancia. E lui, vedendosi attaccato dai suoi, uccise subito con la spada cinque di coloro che volevano ammazzarlo. Ma fu trafitto da molte lance, e fu così che venne ucciso”. Comunque sia, com’era costume la testa di Vlad fu scorticata: la pelle del volto e lo scalpo, imbalsamati e riempiti di cotone, furono portati a Maometto II come trofeo di guerra. Il mistero avvolge l’estrema dimora del Nostro, che non è stata ancora ritrovata. Secondo la tradizione, i resti riposano presso il convento di Snagov, su un’isola in mezzo al lago 35 chilometri a nord di Bucarest. Oggi ben poco rimane di quei tempi remoti. Gran parte del monastero è stato distrutto e a parte alcune rovine, del Cinquecento resta solo la chiesa e qualche ritratto. Dentro, proprio di fronte all’iconostasi che nelle chiese ortodosse separa la navata dal presbiterio, una pietra tombale con l’iscrizione del tutto abrasa dal tempo e dai passi, essendo stata in origine murata nel pavimento. Del sepolcro che chiudeva, a lungo ignoto, si trovò traccia durante una campagna di scavi condotta, all’inizio degli anni Trenta del Novecento, da Dinu V. Rosetti e George D. Florescu[8]. Era nascosto a tre metri di profondità, sotto una tomba piena di ossa di ratti, in una cripta ancora intatta sotto l’asse centrale della navata. La bara, sigillata e rivestita di un tessuto color porpora, conteneva il corpo di un uomo vestito con un abito di velluto porpora e verde, chiuso con grossi bottoni di filo d’argento dorato e stretto in vita da una cintura di placche d’argento a losanga. Da una manica pendeva un anello femminile, mentre un diadema d’oro con un turchese incastonato si trovava vicino alle mani. Purtroppo, a contatto con l’aria la salma svanì prima che gli studiosi potessero fotografarla. Il dubbio che si trattasse del corpo di Vlad serpeggiò subito. Un particolare, che all’inizio pareva porre difficoltà, in seguito sembrò rafforzare l’ipotesi: il fatto che il volto fosse nascosto da un drappo di seta. Come detto, lo scalpo e la pelle del viso furono portati a Costantinopoli. Visto che il cranio “pulito” era solitamente seppellito insieme al resto del corpo, ciò spiega la presenza della testa sul cadavere. Il fatto che fosse scarnificato giustificherebbe la pietosa presenza del drappo di seta. Di quanto rinvenuto nella tomba oggi restano, al Museo di Bucarest, solo i bottoni e qualche frammento di tessuto. Il resto è scomparso e finito chissà dove.


[1]    M. Cazacu,  Dracula. La vera storia di Vlad III l’Impalatore, Milano, Mondadori, 2006, p. 205.

[2]    Per le quali rimando al mio ampio saggio “Vlad l’impalatoore: spietato tiranno o eroe nazionale?” in “Terra Insubre”, anno XV, n. 53 (I Trimestre 2010), pp. 19-34.

[3]    F. Cuomo,  Gli ordini cavallereschi nel mito e nella storia di ogni tempo e Paese, Roma, Newton & Compton, 1992, p.145.

[4]    Șt. Andreescu,  Vlad Ţepeș (Dracula). Între legendă și adevăr istoric, Bucarest, Editura Minerva,  l976, pp. 149-50; ed. successiva riveduta Bucarest, Editura Enciclopedică, 1998; ed. ingl. Vlad the Impaler:Dracula, trad. di Ioana Voia, Bucarest, The Romanian Cultural Foundation Pub. House, 1999.

[5]    N. Iorga, Lucruri nouă despre Vlad Ţepeş, in Corvorbiri literare, XXXV (1901), pp. 160.

[6]    J. Unrest, Österreichische Chronik. Weimar 1957, Nachdruck 2001, p. 68.

[7]    J. Długosz, Historiae polonicae libri XII, Cracow, 1878, p. 651.

[8]    D.V. Rosetti, Săpăturile arheologice de la Snagov, Bucureşti, 1935.

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