La Rivolta d’Ungheria in celluloide. Di Bruno Pampaloni.

Semovente cacciacarri SU85 sovietico a Budapest.

Considerata l’ampia documentazione a disposizione, raccontare la rivolta ungherese del ’56 attraverso la produzione cinematografica è un esercizio che, ben lungi dall’essere un raffinato gioco intellettuale, si configura per il ricercatore come un metodo dotato di grande interesse anche se sussidiario. Innanzitutto, l’analisi del materiale serve a esaminarne l’attendibilità storica e, successivamente, a verificare se vi siano state contaminazioni ideologiche tali da modificare la comprensione dei fatti e trasmettere una verità, purgata e distorta. In definitiva, lo studio della cinematografia che ha per oggetto quelle lontane vicende consente di valutare quanto essa abbia contribuito a strutturare ideologicamente il pensiero collettivo dell’Ungheria o, più semplicemente, quello di alcuni ambienti intellettuali. D’altra parte, la scuola anglosassone prima, che aveva incentrato la propria riflessione sui film di propaganda come testimonianza complementare ai documenti tradizionali, quella degli “Annales” poi (in particolar modo Marc Ferro e Pierre Sorlin), che ha conferito dignità storiografica alla fiction, hanno incluso la cinematografia come possibile fonte storica, trasformandola in un dato acquisito. Va inoltre aggiunto che esiste una vastissima produzione televisiva e documentaristica di propaganda raccolta presso l’Archivio Nazionale Ungherese del Film o rintracciabile in alcuni siti Internet. Tuttavia, come premesso, nel corso di quest’articolo ci occuperemo solo di cinema e principalmente dei lungometraggi che abbiano una stretta attinenza con la rivolta ungherese, sia per la loro vicinanza nel tempo con quel dramma, sia per alcuni elementi di carattere militare presenti nella trama e sia anche per una qualche originale chiave di lettura delle stesse vicende. Altri film, pur certamente degni di attenzione da un punto di vista estetico, risultano per noi meno interessanti poiché lasciano i fatti storici maggiormente sullo sfondo. Va aggiunto poi che alcune produzioni sono esplicitamente corrive al regime filo-sovietico, che altre, generalmente più tarde rispetto all’esperienza del ’56, riflettono un maggior distacco e, infine, che quelle realizzate in piena libertà, manifestano una forte carica anticomunista o un comprensibile anelito libertario. Un serio lavoro storiografico deve tenere  presenti queste modalità realizzative per giungere a delle conclusioni.

Qualunque sia lo strumento di analisi adottato – storico, ideologico, estetico – è possibile rilevare come buona parte delle opere rifletta il dubbio, trasformatosi nello smarrimento di tutta una generazione, se abbandonare l’Ungheria o restare condividendone i destini. In questo senso, due film pur molto diversi fra loro e lontani nel tempo come  Éjfélkor, realizzato da György Révész del 1957, e Szerencsés Daniel, lungometraggio di Pál Sándor del 1983, sono esempi significativi. Entrambi ambientati durante i fatti del 1956, intrecciano storia private al grande dramma sociale. Il tema principale è proprio quello del conflitto interiore di chi deve scegliere se partire oppure rimanere combattendo tuttavia in condizioni proibitive. Si tratta di un dissidio inevitabile e che non si presta a illusorie consolazioni D’altra parte chi se ne è andato ha subito le offerte interessate dell’Occidente o è stato vinto dalla malinconia, chi è rimasto ha dovuto confrontarsi con una realtà lacerante.

Di tutt’altro genere ma non per questo meno drammatico è l’argomento di una produzione straniera del 1961, I sogni muoiono all’alba, film dei documentaristi Mario Craveri, Enrico Gras e del giornalista Indro Montanelli. La pellicola, tratta dal testo teatrale di Montanelli rappresentato con successo nel 1960, racconta le vicende di cinque giornalisti italiani che, in una camera d’albergo a Budapest, aspettano l’arrivo dei carri armati sovietici. Dominato da un certo fatalismo, il lungometraggio racconta le disillusioni politiche dei protagonisti posti dinnanzi all’impossibilità di conciliare gli ideali con la spietatezza della realtà. Il dolore si manifesterà con un tentato suicidio e la morte di un giovane comunista disposto a sacrificarsi insieme a una combattente ungherese. Come è noto, Montanelli era stato testimone della rivolta ungherese del 1956. Da quell’esperienza venne alla luce una serie di importanti articoli per il Corriere della Sera. Nel campo conservatore sorsero allora parecchie critiche ai pezzi di Montanelli, ritenuti troppo poco schierati. Basti ricordare che il giornalista mise in luce soprattutto l’inconciliabilità di due visioni contrapposte della società, quella comunista e quella socialista. Oggi appare del tutto privo di senso insistere con simili polemiche e non è certo questa la sede per esprimere un giudizio estetico sull’impianto teatrale del film. Più interessante sarebbe ripensare criticamente alcune valutazioni sulla fedeltà ai fatti storici, ma a questo proposito molte pagine sono già state scritte. Non resta che prendere atto come il film, pur influenzato fatalmente dagli eventi raccontati, sia testimonianza di un comportamento intellettuale molto libero e capace di indagare l’animo umano evitando le trappole di moralistiche schematizzazioni. Infatti, accertato che gli oppressori furono i sovietici e chi decise di schierarsi dalla loro parte, il racconto mostra come le tragedie della storia non risparmino proprio nessuno.

In film fortemente propagandistici emergono invece tutt’altro genere di conflitti e di certezze. In Tegnap, di Márton Keleti (1959), ecco per esempio il dissidio interiore di chi deve compiere il proprio dovere e invece finisce per cedere alle ragioni della fratellanza (come il militare che, pur certo di combattere dalla parte giusta, quella pro Kadar, ordina la ritirata al suo plotone quando un vecchio amico passa agli insorti). Ma ecco pure l’inflessibilità dello stesso soldato, che, dopo aver mostrato il volto umano del regime, difende con valore i beni della cooperativa dai latifondisti senza scrupoli. In Virrad, altra produzione di propaganda realizzata nel 1960 dallo stesso Keleti, viene rappresentata la naturale solidarietà di classe tra militari ungheresi, operai ed esercito sovietico, che combattono per riportare alla normalità una fabbrica sconvolta dalle gesta degli insorti (qui esplicitamente presentati come contro-rivoluzionari). Se Keleti in queste opere si presenta come l’aedo del regime, Zoltán Fábri tenta invece di prenderne le distanze attraverso Hùsz ora (1965), film piuttosto importante per la cinematografia  d’Ungheria. Da un lato, infatti, uno dei maggiori registi, dall’altro, il tema, sospeso stilisticamente tra metafora e realismo, assicurano alla produzione un notevole interesse. I personaggi caratterizzano dialetticamente le varie anime presenti nel regime di allora e contrappongono concezioni incompatibili del “socialismo realizzato”. In tutta la loro crudezza emergono gli orrori stalinisti che condussero alla rivolta del 1956. La storia in questo senso è assai chiara. Un giornalista arriva in un paesino abitato dai braccianti di un ex – latifondista. Stracciato l’ipocrita velo di un apparente buon governo, il reporter scopre alcuni conflitti personali che, originati dalle differenti aspettative economiche e politiche di quattro comunisti, sfociano nella morte di uno di loro e nel pestaggio di un altro.

Un anno dopo, nel 1966, István Szabó gira l’interessante e difficile Apa, personale tentativo di raccontare l’inconciliabilità tra realtà ed apparenza, vita reale e vita ufficiale. In precedenza, il cinema ungherese aveva provato a denunciare allusivamente l’irriducibile contrasto tra teoria e prassi  nel socialismo reale. Seppur con una metafora, il merito di  Szabó è quello di essere riuscito laddove molti altri avevano solo ambiguamente forzato le maglie della censura. Nel film, il giovane protagonista, rimasto orfano nel 1945, è vittima della mitizzazione del padre, un comune medico che nella sua accesa fantasia è diventato invece un campione della resistenza antinazista. E’ solo durante i terribili eventi della rivolta del ‘56 che il giovane diventa uomo e le illusioni cedono il posto alla dura realtà. L’abilità del regista è quella di far intendere attraverso un primo e più manifesto livello di lettura, quello dell’educazione psicologica del protagonista, un secondo piano di analisi, altrettanto importante, e cioè quello della sua piena, libera consapevolezza politica.

Il 1975 è invece l’anno di un altro film, il thriller Kopjások, alla ricerca di una propria autonomia stilistica e narrativa. Produzione per la Hunnia Filmstúdió di un vero film-maker, György Palásthy, Kopjások è basato sul racconto di András Berkesi e György Kardos. Il protagonista è un ufficiale della polizia segreta che combatte contro i comunisti ma che viene ucciso dagli agenti della sua stessa organizzazione.

Facciamo un brusco salto nel tempo di sedici anni perché se si eccettuano Szamarkohoges, di cui parliamo in fondo, e Eldorado (1988), di Géza Bereményi, film riuscito a tratti e comunque più sulla descrizione di vicende personali quasi affrancate dal piano storico complessivo, nel corso di questo periodo non emergono opere che consentano un racconto organico. E allora arriviamo al 1991. L’Ungheria ha da poco tempo riconquistato l’indipendenza. In tutto il paese comincia un’opera di profonda, spontanea e a tratti ingenua rilettura della rivolta. Anche il cinema nazionale non si sottrae a questo esercizio libertario. Tra i film di questo fase va segnalato Magyar rekviem, di Károly Makk. Gli eventi narrati sono quelli del 1957, immediatamente successivi la sconfitta degli insorti. Sette prigionieri, condannati a morte dal regime di Kadar, aspettano l’esecuzione. Durante l’attesa si concretizzano i ricordi, i rimpianti, le considerazioni su ciò che è stato o su ciò che avrebbe potuto essere. Magyar rekviem esprime certamente una piena e ritrovata emancipazione narrativa. Se Makk lo avesse girato solo dieci anni prima, rischiando, certo, avrebbe realizzato un film con alcuni difetti ma senza dubbio da ammirare. Invece, come in tutte le opere create dopo una troppo attesa libertà e non sorvegliate magistralmente dal regista e dalla sceneggiatura, si segnala una certa rigidità schematica, quasi manichea. Le forze del bene sono rappresentate dai giovani e il male viene incarnato ovviamente dal regime. Anche se, applicando categorie morali ad un analisi storica, questa netta differenziazione può anche essere stata vera, un regista ha sempre il dovere estetico di non far diventare i propri personaggi delle macchiette prive di complessità interiore. Quindi, se da un punto di vista ideologico Makk è perfettamente comprensibile, da quello artistico i limiti, per onestà intellettuale, non possono essere sottaciuti. Magyar rekviem, tuttavia, può essere indicato come emblematico del nuovo registro stilistico assunto da molti registi ungheresi, finalmente liberi da ogni forma di censura.

Infine, pur se cronologicamente precedente a Magyar rekviem, segnaliamo Szamarkohoges, film del 1986 di Péter Gárdos interessante per il singolare registro stilistico utilizzato. Qui, infatti, i principali protagonisti sono alcuni bambini che riescono con difficoltà a dipanare i fili di una trama, quella della Storia. E la stessa Storia sconvolge la quotidianità delle loro vite e che minaccia la tranquillità degli affetti familiari.  Se la vicenda raccontata da Péter Gothár indaga con attenzione le reazioni dei giovani protagonisti costretti ad affrontare le vicende della rivolta del ‘56 e a prendere decisioni più grandi delle loro stesse forze, ancor più interessante è la narrazione psicologica del conflitto che si instaura in coscienze non ancora del tutto formate.

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